“Whatever it takes” per il clima?

Si chiude oggi il vertice dei leader per il clima convocato dal Presidente Joe Biden per rimettere in pista gli Stati Uniti nell’alveo multilaterale, a partire dalla lotta ai cambiamenti climatici. Un cambio di passo epocale, dopo che quattro anni di furia trumpiana avevano indebolito la credibilità a stelle e strisce sulla scena internazionale.

Ieri è stato il giorno delle grandi promesse, quelle a cui questi summit di primi ministri e capi di Stato ci hanno spesso abituato negli ultimi decenni, sebbene di azioni ne siano sempre seguite poche e insufficienti. Per Biden, i cittadini statunitensi dovranno dimezzare le proprie emissioni in meno di dieci anni. Una sfida al limite dell’impossibile se si pensa all’attuale stile di vita nella più grande economia del Pianeta. L’Ue ha rilanciato con un taglio del 55 per cento, mentre altre potenze si sono impegnate in qualche forma. Bene a parole, ma quali azioni seguiranno da domani?

Questo è il decennio chiave per la lotta ai cambiamenti climatici: o si cambia davvero subito, oppure poco conterà fissare obiettivi al 2050 o oltre. Raggiungere risultati ambiziosi, che di fatto dovrebbero trasformare l’intera società e il nostro modo di vivere, richiede azioni coraggiose e radicali fin da subito, così da smettere di usare i combustibili fossili, principali responsabili della crisi climatica.

Mario Draghi © World Economic Forum. Swiss-image.ch/Photo by Monika Flueckiger. CC BY-NC-SA 2.0

Nel suo intervento nella prima giornata del vertice, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha riconosciuto che fino adesso non è stato fatto abbastanza e che l’Italia è un paese fragile e soffrirà a causa dei cambiamenti climatici. Tutto vero. L’attenzione di Draghi e del mondo politico si è subito spostata sulla ormai prossima definizione del famigerato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per intascare nei prossimi anni più di 200 miliardi di euro dell’EU Next Generation Fund. Nonostante l’enfasi sulla transizione ecologica e sul green deal, va ancora verificato quanto davvero i combustibili fossili resteranno fuori dal cosiddetto Recovery Plan.

Preoccupa però che, a fronte di dichiarazioni rassicuranti, progetti discutibili e triti e ritriti da decenni, quali nuove autostrade e infrastrutture pesanti – forse ci sarà un motivo per cui non sono mai stati finanziati alla fine? – potrebbero essere inseriti dal governo in un fondo parallelo, alimentato dal bilancio dello Stato, perché non eleggibili per l’Ue. Una “Super Lega” di progetti fossili che l’Italia si farebbe per conto suo, a mo’ di transizione non ecologica.

Preoccupa ancor di più che nel recovery plan vi sia una centralità di opere, quali l’espansione dei porti, funzionali ad accelerare vertiginosamente il traffico di merci e della globalizzazione commerciale, che a livello internazionale non cresce più dai tempi della crisi economico-finanziaria del 2007-2009. Quella che potremmo definire una globalizzazione 2.0, che sogna il just in time globale della produzione e richiede progetti faraonici e fossili per “asfaltare” il Pianeta per far spazio a più commercio ed investimenti globali, diventerebbe quindi la vera trazione della crescita economica anche dell’Italia.

Anche quando parliamo dei fondi europei o di nuovo debito italiano per finanziare le infrastrutture si tratta di azioni importanti, ma che si materializzeranno nel bene e nel male con lentezza. Nell’immediato, invece, Draghi dovrebbe intervenire su materie e scelte dove il governo conta e può agire senza aspettare il placet di altri. Ossia può intervenire sugli strumenti finanziari pubblici esistenti, quali la Cassa Depositi e Prestiti e soprattutto l’assicuratore pubblico Sace, nonché sulle aziende di peso, partecipate con una golden share dal governo. Queste realtà condizionano la politica energetica e non solo dell’Italia. Ovviamente ci riferiamo soprattutto a Eni, Snam e Enel. In questo caso non servono i fondi europei per cambiare, né debito buono o cattivo, ma solo il coraggio di imporsi su alcuni poteri forti e consolidati del “sistema Italia”.

Draghi conosce in prima persona questi giganti del pubblico o para-pubblico che dir si voglia. È stato presidente di SACE negli anni Novanta, nonché le privatizzazioni delle major italiane le ha fatte in prima persona nello stesso periodo. Avrà il coraggio di intervenire whatever it takes su queste istituzioni e società, il cui business ruota in maniera preponderante sui combustibili fossili, non guardando in faccia a nessuno? Oppure sarà alla fine un as long as they take, ossia una politica che privilegerà l’espansione delle stesse società e istituzioni che ritarderanno il cambiamento necessario il più possibile pur di mantenere il loro potere?

Nel frattempo, il ministero della Transizione ecologica ha appena autorizzato nuove trivellazioni in Adriatico, in Val d’Agri, nel più grande campo onshore dell’Europa, l’estrazione del greggio continua senza sosta, la bomba ecologica dell’ILVA di Taranto è sempre in azione per volere del governo e la Sace sta valutando di garantire con miliardi di euro l’operato di società italiane in nuovi mega progetti fossili, quali il Rovuma LNG in Mozambico, l’East Africa Crude Oil Pipeline in Uganda e Tanzania, l’espansione dell’LNG nell’Artico russo e anche nuove trivellazioni offshore in Brasile. Oltre a chiudere il recovery plan, nei prossimi giorni Draghi effettuerà le nomine dei nuovi vertici di Sace. Dobbiamo aspettare ancora poco per comprendere quanto sia “fossile” questo governo.

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