Le responsabilità cinesi e italiane in Bosnia-Erzegovina
Nell’aprile 2020, Intesa Sanpaolo ha annunciato che non avrebbe più finanziato nuovi progetti relativi al settore del carbone. Un impegno che ha avuto la giusta eco, ma non ha impedito alla più grande banca italiana di finanziare, solo pochi mesi prima, uno dei progetti più devastanti in fase di costruzione alle porte dell’Unione europea: la centrale di Tuzla 7, in Bosnia-Erzegovina.
Un’attività “mordi e fuggi”, giunta prima del suono della campana. Ciò pone seri dubbi sull’azione climatica della “banca di sistema” italiana, soprattutto in ottica futura, quando saranno necessari impegni ben più consistenti di quelli contenuti nella sua policy sul carbone, una delle più deboli e tardive tra le banche europee.
Sullo sfondo si stagliano i crescenti contrasti tra l’Unione europea e la Cina, sempre più protagonista nei Balcani, mentre l’impianto minaccia la già fragile salute dell’ambiente e delle comunità locali. Una situazione aggravata anche dalla pandemia in corso.
Con l’abbandono da parte delle istituzioni, la storia di Tuzla 7 è quella di comunità che hanno deciso di resistere, perché stanno subendo un attacco alla propria vita.