Pubblicato su Altreconomia.it
Improvvisamente il tema della transizione ecologica è salito alla ribalta nel dibattito sofferto sulla formazione del governo Draghi sotto l’auspicio perentorio del presidente della Repubblica. Come sempre, la “provinciale” Italia scopre un tema ampiamente discusso già da anni in alcuni Paesi europei e di sicuro nell’ambito delle politiche dell’Unione europea sul Green Deal e il nuovo bilancio settennale dell’Ue. Meglio tardi che mai.
Alcuni si sono rallegrati perché sembrerebbe che il presidente del Consiglio incaricato voglia procedere alla creazione in un singolo ministero per la Transizione ecologica, che dovrebbe accorpare alcuni dei ministeri esistenti (Ambiente, Sviluppo economico e in caso alcuni dipartimenti di altri dicasteri). Tutto interessante, sulla carta. Occorre però porsi delle domande più concrete e che mettono le mani nel piatto finanziario che Mario Draghi e “sodali” gestiscono in autonomia dalla politica da tempo.
Come premessa chiariamo che è inutile farsi illusioni sull’esistenza di governi amici e non amici, a maggior ragione se abbiamo a che fare con governi tecnico-politici. Nel caso specifico, Mario Draghi è sempre stata una figura influente ma ambivalente nella sua traiettoria economico-politica: neo-keynesiano doc di formazione, sedeva sul Britannia al tempo delle privatizzazioni (un po’ alla russa) italiane di inizio anni 90. Paladino della trasparenza e del corretto operato nei mercati internazionali come direttore alla Banca mondiale e poi al Tesoro a Roma, ma anche consulente di alto livello di Goldman Sachs, non proprio stinco di santo della finanza globale. Governatore di visione in Banca d’Italia, ma anche fautore di accorpamenti di banche come un mantra, che non sempre hanno aiutato i territori produttivi italiani; ed infine salvatore dell’euro quando a capo della Banca centrale europea, ma anche castigatore neo-liberista di governi in preda alla crisi sovrana una decade fa.
La sua forza è che sa ed è rispettato da chi conta sui mercati globali. Chiediamoci quindi se questi poteri forti -senza dietrologie o cospirazionismi- vogliono oggi davvero la transizione ecologica, se sì perché, e quale transizione, prima di pensare che “super-Mario” si scontrerà lancia in resta con costoro come nuovo paladino dell’ambientalismo globale. Per sgombrare il campo da equivoci, a Draghi è stato chiesto di salvare l’economia italiana -e di conseguenza quella europea- nel contesto della pandemia e delle azioni di recovery da questa, ma non il clima né il Pianeta. Di sicuro il professore non ambisce a tanto, anche perché saggio e dotato di buona dose di realismo.
Il “debito buono” del Recovery fund, come lo definisce Draghi, riguarderà principalmente investimenti di lungo termine e questa è l’opportunità per l’Italia, vero. Ma quali investimenti saranno davvero trasformativi nella transizione ecologica che dobbiamo navigare? E quali in realtà, anche se porteranno maggiore sostenibilità ambientale nel lungo termine, invece non cambieranno affatto la struttura sociale e democratica che ha marcato un modello alquanto fallimentare che ci ha portato alla crisi ecologica e climatica negli ultimi decenni e probabilmente ci porterà a nuove crisi sociali e ambientali? In breve, il “debito buono” esso stesso si divide in “trasformativo” e da “business as usual”, ossia che non altera gli equilibri di potere e i cicli economici in maniera profonda. Senza modificare questi, poche grandi multinazionali e pochi attori gestiranno la transizione, le energie pulite o presunte tali, decidendo chi vince e chi perde, non la politica, come avvenuto nell’economia fossile fino ad oggi.
E queste risposte non la darà la super-struttura di un ministero, ma il quadro di politiche ecologico-industriali del governo che dovranno decidere quale coerenza nelle politiche si vuole proporre e realizzare: una transizione che non altera i piani per una globalizzazione centrata sull’accelerazione del commercio mondiale, mega infrastrutture ed una riscrittura della geo-economia -quella che Goldman Sachs nel 2008 ha modestamente definito “building the world”, costruire il mondo- oppure un’altra transizione centrata sulla resilienza dei territori, anche sulla riduzione dei consumi e sulla creazione di lavoro in altre forme?
Insomma Draghi, e chi oggi lo sostiene, ritiene che mammut quali Eni, Snam e altre corporation a stelle e strisce che a oggi hanno intralciato la transizione in Italia, la dovranno di fatto guidare sulla base di una presunta, quanto improbabile ed in ogni caso ipocrita riconversione, oppure queste vedranno finalmente ridotto il loro potere lasciando spazio a nuovi attori di un più profondo cambiamento? E il governo italiano, che controlla il 30 per cento di questi giganti, interferirà con forza nelle loro politiche ed operazioni, o aspetterà in silenzio la loro conversione sulla strada della COP26 sul clima di Glasgow?
E se pure volessimo dare credito al fatto che la struttura di un super-ministero per la transizione ecologica farà da volano a questo conversione, chiediamoci però se poi la nuova struttura includerà davvero le parti dell’amministrazione che contano, ossia, e Draghi lo sa bene, la finanza pubblica. Chi deciderà in ultima istanza le priorità di spesa nel Recovery Plan? Ma non solo: quanto l’operato di tutti i bracci finanziari dello Stato -da Cassa depositi e presititi a Sace, enti che il presidente Draghi ben conosce- saranno davvero soggetti di una trasformazione profonda e non di una transizione di facciata. Sace che oggi finanzia a piene mani progetti a combustibili fossili nel mondo, smetterà di farlo subito o no? E così per altri gangli della finanza pubblica italiana. Ed infine, cambieranno anche i vertici delle potenti partecipate di Stato, a partire da Eni, che da sempre dettano la politica “fossile” energetica, estera e di fatto industriale italiana?
Che la società civile italiana, prima di facili entusiasmi, rifletta. Il clima, così come la giustizia sociale, vanno salvati “Whatever it takes”, Draghi o non Draghi, e che ci si organizzi da subito in solidarietà con le comunità di base che continuano a resistere in tanti angoli di Italia in tal senso e che potrebbero aiutare a definire cosa è davvero trasformativo, per una volta, nella tanto chiacchierata transizione ecologica.