Scandalo Lava Jato, Santo Domingo si ribella contro la corruzione. E c’entra anche l’Italia

Gli attivisti di Marcha Verde in piazza contro la costruzione di Punta Catalina. Foto Luca Manes/Re:Common, 2017

[di Luca Manes] pubblicato su L’Espresso il 3 ottobre 2017

In Repubblica Dominicana c’è una consistente fetta della cittadinanza che ha deciso di dichiarare guerra alla corruzione. Dallo scorso gennaio, in ogni angolo del Paese caraibico si tengono almeno due manifestazioni al mese promosse da una coalizione, formata da varie realtà della società civile, denominata Marcha Verde. Decine di migliaia di persone, tutte con magliette, cappellini e bandiere rigorosamente verdi scendono in piazza per gridare la loro indignazione contro il governo e il suo grande partner d’affari, la Odebrecht.

La potente multinazionale brasiliana del settore delle costruzioni si è macchiata di corruzione in 12 paesi di America Latina e Africa e proprio in Repubblica Dominicana aveva spostato la sua centrale di smistamento delle mazzette quando in Brasile i magistrati si erano accorti che qualcosa non andava nei conti societari. Si era all’alba di Lava Jato, una delle più grosse inchieste sulla corruzione della storia, che ha travolto la politica brasiliana a partire dagli ex presidenti Lula Da Silva e Dilma Rousseff. Oltre all’Odebrecht, anche il gigante petrolifero Petrobras e l’italo-argentina Techint sono pesantemente coinvolte in tutta la vicenda.

Nel corso di un processo intentatogli negli Stati Uniti, la Odebrecht ha patteggiato una sanzione pecuniaria di 3,5 miliardi di dollari dopo aver ammesso il pagamento di 788 milioni di dollari in tangenti in giro per il mondo. Se si eccettua il Venezuela, la Repubblica Dominicana è il Paese dove sono state distribuite più mazzette (92 milioni di dollari fra il 2001 e il 2014). Il tutto a fronte di contratti dal valore di cinque miliardi di dollari, quasi la metà riguardanti l’appalto della mega-centrale a carbone di Punta Catalina.

Eppure, incredibile dictu, questo progetto rimane fuori dall’ulteriore patteggiamento concordato con i giudici dominicani e non ha un ruolo centrale in un’inchiesta attualmente in corso e di cui accenneremo più avanti. Per Marcha Verde, che ha fatto di Punta Catalina il simbolo della sua lotta, l’impianto a carbone costituisce la pietra angolare di un sistema che ha ramificazioni in tutte le istituzioni locali. “Vogliamo la fine della corruzione e dell’impunità, ma senza fare chiarezza su quanto accaduto per l’aggiudicazione dell’appalto miliardario di Punta Catalina non ci sarà mai vera giustizia”, ci ha detto Enrique de Leon, esponente del Comitato Nazionale contro i Cambiamenti Climatici, una delle mille anime della Marcha Verde.

Per la sua realizzazione nel 2014 la compagnia brasiliana ha costituito un consorzio con la locale Estrella e l’italiana Marie Tecnimont. Ma italiana, l’Unicredit, è anche una delle cinque banche europee (le altre sono Deutsche Bank, ING, Société Générale e Santander) che hanno accordato prestiti per 600 milioni di dollari, così come è stata l’agenzia di credito all’export nostrana, la Sace, a garantire questa operazione finanziaria. Gli istituti di credito però hanno sborsato solo la prima tranche del denaro – circa la metà del dovuto – preferendo congelare la seconda in attesa di un audit indipendente che accerti se c’è stata veramente corruzione e se sia dunque meglio ritirarsi dall’operazione. Sia Sace che Unicredit hanno preferito trincerarsi dietro un diplomatico no comment in attesa di eventi.

Sulla carta, qualora le banche dovessero fare un passo indietro, la restante somma sarebbe versata dalla Sace, che poi si rivarrebbe sul governo dominicano, il quale già si è trovato a dover far fronte al mancato contributo della BNDES, la banca di sviluppo brasiliana anch’essa immischiata nello scandalo Lava Jato. Sebbene il progetto “chiavi in mano” inizialmente prevedesse che l’80 per cento dei fondi fosse reperito dal consorzio costruttore, allo stato attuale l’esecutivo del Paese caraibico ha già stanziato un miliardo e 200 milioni di dollari. Ma non è da escludere che dalle casse dello Stato debba uscire altro denaro pubblico.

“Il calcolo dei costi è stato fatto in maniera inadeguata, c’è il serio rischio che si possa arrivare a 3 miliardi di dollari. Un conto salato per i cittadini, che già stanno pagando bollette più alte del 30 per cento per finanziare Punta Catalina”, ci ha spiegato Antonio Almonte, esperto di questioni energetiche ed esponente del Partido Revolucionario Moderno, da sempre convinto che, sebbene il carbone rappresenti la scelta giusta per il mix energetico dominicano, Punta Catalina sia un progetto inadeguato.

Le preoccupazioni di Almonte ci sono state confermate il giorno dopo la nostra intervista da un articolo apparso sul quotidiano il Listin Diario, in cui Odebrecht chiede altri 700 milioni di dollari per sopraggiunto aumento dei costi.

Una clamorosa sconfessione del rapporto indipendente redatto da un gruppo di “notabili” su richiesta del governo Insediatasi nel gennaio 2017, dopo otto mesi di attività la commissione ha presentato in pompa magna la sua relazione finale, che tuttavia sembra più un simulacro che un reale tentativo di ricercare la verità.

Persio Maldonado, direttore del quotidiano El Nuovo Diario e presidente dell’Asociación Dominicana de Diarios, era tra i notabili che hanno siglato il rapporto finale. Anche Maldonado è stato da noi intervistato prima dell’uscita del dirompente articolo del Listin Diario. “Io non posso dire se c’è stata o non c’è stata corruzione, però posso ribadire quanto segnalato nelle conclusioni del nostro lavoro, ovvero che è stata rispettata la legge esistente per il processo di aggiudicazione della licenza e che non c’è stato alcun aumento dei costi”, ha sottolineato.

Il giornalista ostentava certezze anche sullo stato dell’opera – “è completa per più del 70 per cento” – e sui tempi – “si chiude tutto entro gli ultimi mesi del 2018”. Su quest’ultimo punto già Rafael Abreu, Presidente dell’associazione sindacale CNUS, ci aveva dato indicazioni discordanti. Riferendoci che il cantiere impiega 3.300 operai, in buona parte locali, Abreu non ha lesinato critiche. “I nostri iscritti ci raccontano che l’opera sarà completata solo nel 2019 e si lamentano della bassa qualità dei materiali utilizzati. Ci sono stati vari incidenti, due persone sono morte e altre rimaste ferite”.

Ritardi, sensibili aumenti dei costi e corruzione. Eppure il governo appare quasi “costretto” a difendere a spada tratta l’Odebrecht, che in altri contesti sarebbe stata “giubilata” da molto tempo. È molto probabile che una posizione così tremebonda si spieghi con le relazioni pericolose dello stesso presidente Danilo Medina con l’Odebrecht. In un articolo dell’agenzia stampa Bloomberg datato giugno 2017, si ricostruisce il tentativo di corrompere Hipolito Polanco, l’avversario di Medina alle presidenziali del 2016, da parte di Monica Moura. La Moura è la moglie di Joao Santana, consigliere particolare di Medina nonché una sorta di guru della politica dominicana. La coppia è ora “ospite” delle prigioni brasiliane, perché coinvolta in maniera molto diretta nello scandalo Lava Jato, versante Odebrecht. A quanto si sa, i magistrati dominicani avrebbero acquisito i faldoni dell’inchiesta brasiliana che riguardano Punta Catalina. Nel frattempo, il Procuratore Generale della Repubblica Dominicana ha segnalato che la Odebrecht avrebbe pagato due parlamentari per aggiudicarsi l’appalto miliardario del progetto e gli stessi magistrati stanno investigando l’imprenditore dominicano Angel Rondon, dal 2001 uomo della multinazionale carioca a Santo Domingo. Rondon avrebbe fatto da intermediario pagando tangenti a funzionari governativi per l’aggiudicazione dell’appalto di Punta Catalina, oltre ad aver costituito una miriade di società offshore, da Panama alle Isole Vergini Britanniche, da dove sono transitati milioni di dollari “poco puliti”. Nelle carte brasiliane si parlerebbe esplicitamente di corruzione per l’aggiudicazione dell’appalto della centrale. Visti i precedenti e la scarsa indipendenza del potere giudiziario, gli attivisti di Marcha Verde non sono molto ottimisti sull’esito dell’inchiesta, la cui conclusione è prevista entro la fine del 2017.

Passando all’angolo ambientale della storia, Punta Catalina sorge su un tratto di costa, in una zona di pregio naturalistico. Nei dintorni del cantiere non si contano le coltivazioni di canna da zucchero, caffè e mango, quest’ultima così pregiata che con le emissioni è pressoché certo che perderà la certificazione speciale. Altro colmo dei colmi, il governo non è proprietario dell’appezzamento di terreno necessario per la realizzazione dell’opera. Attualmente è infatti in essere un contratto di enfiteusi con il gruppo Vicini, potentissima famiglia di chiare origini italiane che in Repubblica Dominicana fa il bello e cattivo tempo in tutti i settori dell’economia. E con cui il governo dovrà prima o poi negoziare un prezzo d’acquisto, anche perché le obbligazioni che ha emesso lo scorso luglio sui mercati internazionali per coprire il gap di fondi non arrivati dal Brasile saranno meno traballanti se almeno la terra su cui sorge l’impianto diventerà dello Stato.

Ciliegina sulla torta, si fa per dire, tutte le persone che abbiamo interpellato ci hanno confermato che il carbone da bruciare nell’impianto di Punta Catalina arriverà dalla Colombia. Forse proprio quello macchiato del sangue di sindacalisti e semplici cittadini uccisi dalle unità paramilitari per “agevolare” il business dell’estrazione nella regione del Cesar, da dove pochi mesi fa l’Enel, come raccontato dall’Espresso, ha cessato di comprare la polvere nera per le sue centrali.

Quest’ultimo elemento sta diventando di dominio pubblico anche tra gli aderenti alla Marcha Verde, prontissima a continuare la sua protesta finché il muro di gomma innalzato dalle istituzioni dominicane non cominci a incrinarsi.

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