Il piano europeo di risposta alla crisi del gas e all’invasione russa dell’Ucraina si chiama RePower EU. Un progetto articolato, che fa riferimento a un pacchetto di strategie orientate a rivedere il grand plan europeo di rilancio dell’economia in chiave “green” della Next Generation EU, includendo un nuovo ambizioso obiettivo: “liberare” l’Unione europea dalla dipendenza dalla Russia per le forniture di gas, petrolio e carbone, ma anche da altre materie prime, entro il 2030.
Come sottolinea la stessa Commissione, l’Ue importa il 90% del gas, il 97% del petrolio e il 70% del carbone che utilizza. Di questi, oltre il 40% del gas, il 27% del petrolio e il 46% del carbone provengono dalla Russia. Rompere questa dipendenza non è cosa da poco, ma RePower EU va anche oltre: apre la strada a una vera e propria riconfigurazione del ruolo dell’Ue nel mondo, in un contesto internazionale in rapido mutamento, a partire dal settore energetico e delle materie prime.
A lato del rilancio delle rinnovabili, a cui è dedicata una delle strategie, e dell’efficienza energetica, il piano per superare la dipendenza dal gas russo ha un grande punto fermo, il brutale rilancio del gas su scala globale. Dalle estrazioni in mare aperto alle nuove infrastrutture per l’importazione del gas e dell’idrogeno, la strategia si sviluppa attorno a una lettura che vede il gas come vero protagonista di una riconfigurazione delle relazioni, ma anche delle strategie commerciali dell’Ue, orientate a uscire dalla dipendenza energetica dalla Russia, e allo stesso tempo ridefinire le relazioni sia con i paesi che ancora non sono entrati nella Energy Community (Ucraina, Georgia, Moldova, Balcani Occidentali) che con i paesi degli altri continenti.
“Nessuno Stato membro può affrontare questa sfida da solo” afferma la Commissione Europea guardando all’obiettivo di chiudere con gli import di petrolio, carbone e gas dalla Russia al più tardi entro il 2030,ed entra nel dettaglio del “come” in una delle strategie parte del pacchetto, la External energy strategy. Qui si legge prima di tutto la volontà della Commissione di aumentare le importazioni di gas liquido dagli Stati Uniti, paese con cui l’Ue ha firmato un accordo bilaterale ad hoc, di fatto contribuendo al rilancio del vecchio piano Usa di diventare primo paese esportatore di gas trasportato via nave su scala globale. Un piano, questo, che nasce svariati anni fa, in parallelo alla campagna interna di finanziamento pubblico all’estrazione di gas, utilizzando la controversa tecnica del fracking. Questo nonostante la resistenza strutturatasi negli anni all’interno degli Stati Uniti sia al fracking – per le sue drammatiche conseguenze sull’ambiente, in particolare l’inquinamento delle falde acquifere, e sul clima – che alle nuove infrastrutture per il trasporto e l’esportazione del gas via nave in Louisiana, Texas e altri stati sul Golfo del Messico.
L’obiettivo dell’Ue è aumentare le importazioni di gas liquido di almeno 15 miliardi di metri cubi nel 2022 e di 50 miliardi di metri cubi l’anno almeno fino al 2030, principalmente dagli Stati Uniti e in collaborazione con altri partner internazionali. In particolare, entro la fine del 2022 l’Ue punta a concludere un accordo trilaterale con Egitto e Israele per l’importazione di gas liquido dall’Est Mediterraneo. Anche Nigeria, Senegal e Angola sono tra i paesi da cui potrebbe arrivare più gas liquido, mentre Norvegia, Azerbaigian e Algeria potrebbero incrementare le forniture via gasdotto.
Paesi questi su cui l’Ue fa affidamento, sigillando con RePowerEU dei legami tossici che dovrebbero sostituire quello oramai fuori controllo con la Russia. Ma senza risolvere il problema della dipendenza dal gas né quello dei cambiamenti climatici, per non parlare delle violazioni dei diritti umani perpetrate quotidianamente da governi autocratici che alimentano la macchina repressiva e la struttura di potere costruita negli ultimi anni proprio grazie alle entrate garantite dalle vendite di gas, esattamente come la Russia.
Nella mappa aggiornata delle nuove infrastrutture per il gas, RePower EU aggiunge diversi nuovi terminal LNG e gasdotti ai Progetti di priorità europea (PCI) [vedi mappa], e incoraggia gli Stati membri a contribuire all’obiettivo della diversificazione dalla Russia con ulteriori infrastrutture, aprendo alla possibilità di usare vari capitoli del budget europeo per finanziarli, dai fondi di coesione alle entrate derivate dal mercato delle emissioni, fino a quelli dedicati per la politica agricola comunitaria e per la ripresa, ovvero la Recovery and Resilience Facility. Tra le nuove grandi infrastrutture troviamo l’estensione del gasdotto TAP (con il gasdotto IGB verso la Bulgaria) e la sua espansione, ovvero il raddoppio della portata del gasdotto fino a 20 miliardi di mc l’anno; la costruzione di un gasdotto tra la Spagna e l’Italia (Snam e Enagas hanno firmato un Memorandum of Understanding e commissionato uno studio di fattibilità); la costruzione di un corridoio per l’importazione di idrogeno dal Nord Africa verso l’Italia e l’Ue.
La strategia prevede investimenti complessivi per 210 miliardi entro il 2027 nella forma di prestiti, e 225 miliardi aggiuntivi a fondo perduto da distribuire attraverso la Recovery and Resilience Facility. La Commissione ha dato indicazione per creare un nuovo capitolo di spesa per i PNRR dei paesi membri, dedicato proprio alla risposta alla crisi con la Russia, in cui la costruzione di infrastrutture energetiche godrà di una deroga speciale: i nuovi progetti non dovranno rispettare il principio del Do Not Significant Harm, uno dei pilastri del programma di ripresa e resilienza europeo, orientato a garantire proprio la difesa dell’ambiente e della biodiversità. Un altro aspetto da segnalare, che in molti leggiamo già con allarme, è il rilancio dell’idrogeno prodotto “da fonti non fossili”, con esplicito riferimento alla possibilità di proporre progetti per la produzione di idrogeno “anche da nucleare”. Il paese a cui l’Ue starebbe guardando sembra essere proprio l’Ucraina.
Oltre al gas, l’agenda commerciale dell’Ue guarda ai paesi degli altri continenti principalmente come fornitori di energia e materie prime di cui necessita l’industria europea “green”, per cui la External energy strategy prevede varie forme di sostegno pubblico pur di assicurarne il ruolo di leader globale. Parte del pacchetto è una nuova spinta per l’importazione di 10 miliardi di tonnellate di idrogeno, per cui la Ue prevede di concludere delle partnership sull’idrogeno con “paesi affidabili” per assicurare “relazioni di investimento e commerciali aperte e non distorte per carburanti rinnovabili e a basse emissioni di carbonio”. La strategia fa riferimento a tre corridoi per l’importazione di idrogeno: dal Mare del Nord (Norvegia e Regno Unito ), dal Mediterraneo meridionale e dall’Ucraina, che la Ue vorrebbe aprire “non appena le condizioni lo permetteranno”.
Allo stesso tempo la Commissione si sta già muovendo per assicurarsi attraverso accordi ad hoc (ad esempio con la Namibia, ma anche con l’Australia, diversi paesi in Sud America e nei Balcani Occidentali) le materie prime, terre rare, litio, magnesio, niobio, germanio, borati e scandio di cui l’industria “green” necessita e il cui costo è previsto aumentare fino al 2050.
Un quadro preoccupante, incentrato su una visione e un modello neocoloniale dell’Unione europea che ripropone un’agenda commerciale e consolida relazioni con governi autoritari per garantire lunga vita al gas e nuova vita alla crescente industria ‘green’, che rischia di seguire lo stesso modello estrattivista disegnato dall’industria fossile. Dal punto di vista della sostenibilità e della giustizia sociale, quale cambiamento ci possiamo aspettare da questa strategia?