Questo articolo riprende in parte un testo pubblicato sul numero di settembre del mensile Altreconomia nell’ambito dello spazio dedicato alla rubrica di ReCommon “Fossil Free”.
Il Climate Change Litigation Database ne conta 2761. Sono le cause per il clima, e ormai non vedono alla sbarra solo gli stati inadempienti nei loro obblighi di lotta al surriscaldamento globale, ma anche le compagnie private. The Big Oil in Court, il rapporto di Oil Change International e Zero Carbon Analytics reso pubblico lo scorso settembre rivela che sono almeno 86 le cause sul clima intentate contro le più grandi aziende produttrici di petrolio, gas e carbone del mondo – tra cui Eni, BP, Chevron, ExxonMobil, Shell e TotalEnergies – e due casi su cinque riguardano richieste di risarcimento per danni da cambiamento climatico legati ai combustibili fossili. Il numero di cause intentate ogni anno contro le aziende produttrici di combustibili fossili è quasi triplicato da quando è stato raggiunto l’Accordo di Parigi nel 2015.
Anche un altro studio lanciato lo scorso giugno dal Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment della London School of Economics and Political Science conferma il trend in atto. Gli autori del rapporto sottolineano inoltre che la maggior parte delle cause sul greenwashing ha confermato che le comunicazioni delle aziende erano fuorvianti. Più della metà dei quasi 140 casi di greenwashing esaminati tra il 2016 e il 2023 hanno raggiunto decisioni ufficiali; 54 di questi 77 casi si sono conclusi a favore del ricorrente.
L’Olanda è forse il Paese che ha contribuito maggiormente a creare precedenti di grande rilevanza per le cause climatiche. Nel dicembre del 2019, dopo una saga giudiziaria durata sei anni e intentata dalla fondazione ambientalista Urgenda in nome proprio e per conto di 886 cittadini olandesi, la Corte Suprema ha imposto al proprio governo di ridurre le emissioni inquinanti del 25%, rispetto ai livelli del 1990. L’esecutivo dei Paesi Bassi era stato citato in giudizio per non aver adottato misure sufficienti a minimizzare gli effetti negativi prodotti dai cambiamenti climatici sulla salute dei cittadini.
Nel maggio del 2021, invece, a essere riconosciuta responsabile del disastro climatico è stata Shell, la più grande multinazionale europea e da sola causa in maniera diretta e indiretta del 3 per cento delle emissioni del Pianeta.
Tutto è partito per iniziativa del ramo locale dell’organizzazione ambientalista Friends of the Earth, denominato Milieudefensie. Nella sede dell’organizzazione, ad Amsterdam, abbiamo incontrato Sjoukje van Oosterhout, a capo del team di quindici persone che, insieme a tre legali, hanno condotto la causa contro Shell.
“Eravamo ben consci che Shell non stava facendo la sua parte per limitare gli effetti della crisi climatica e soprattutto abbiamo capito che non si poteva porre loro un limite”. Per questo la strada da percorrere è stata la causa legale, iniziata nel 2018, a cui si sono unite altre sei organizzazioni di peso, tra cui Greenpeace e Action Aid Olanda, e 17mila privati cittadini.
Grazie alla loro attività di ricerca, Sjoukje e i suoi colleghi hanno scoperto che Shell sapeva degli effetti sul clima dello sfruttamento dei combustibili fossili quanto meno dal 1986, come messo nero su bianco da rapporti ufficiali della società. Ma probabilmente questa consapevolezza c’era anche prima, visto che alti dirigenti manifestarono il loro apprezzamento a uno studio datato 1968 dell’American Petroleum Institute – di cui la Shell era associata – in cui si evidenziavano i pericoli per il Pianeta legati all’estrazione massiccia di idrocarburi.
La sentenza della corte olandese è stata a dir poco rivoluzionaria nei suoi contenuti: ha imposto a Shell di ridurre le proprie emissioni del 45% entro il 2030, rispetto ai dati del 2019, ha riconosciuto che la società è responsabile delle emissioni di CO2 sia dell’azienda che dei consumatori e di conseguenza ha intimato alla stessa di usare la sua influenza per offrire ai consumatori scelte più sostenibili. In questo caso si ribalta il paradigma così caro al settore fossile che vorrebbe chi acquista la benzina per l’auto o il gas per riscaldare casa responsabile per la crisi climatica. Se al vertice della catena energetica non si creano alternative valide e sostenibili, non si può poi dare la colpa al consumatore. Ma ancora, il pronunciamento della corte stabiliva che Shell è tenuta a rispettare i diritti umani, poiché sta mettendo a rischio la vita delle persone a causa delle sue attività responsabili della crisi climatica.
“L’eco mediatica della sentenza è stata enorme e ora in Olanda c’è maggiore consapevolezza del problema e delle sue cause”, ci spiega Sjoukje. “Noi stiamo continuando su questa strada, abbiamo già fatto pressione su altre 30 società affinché rivedano le loro politiche sul clima. Due lo stanno facendo, perché hanno capito che continuando di questo passo la loro licenza sociale sarà a forte rischio”. Milieudefensie in realtà ha già instradato una nuova causa, contro una delle più grandi banche europee, l’olandese ING, e attende l’esito del procedimento d’appello voluto da Shell. Lo scorso aprile si sono tenute le udienze e il nuovo verdetto è previsto per il prossimo 12 novembre. “Purtroppo Shell non ha dato seguito alla sentenza di primo grado, che era esecutiva. Ora vedremo che cosa accadrà qualora sia ritenuta responsabile anche in appello”, l’augurio di Sjoukje.
La “Giusta Causa” lanciata nel maggio del 2023 da Greenpeace Italia e ReCommon, insieme a 12 cittadine e cittadini, prende spunto proprio dal caso-Shell, e cita in sede civile Eni e i suoi azionisti del ministero dell’Economia e di CDP per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui la stessa Eni ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone consapevole.
Ora il procedimento è sospeso, in attesa che la Cassazione si pronunci sull’effettiva possibilità di condurre o meno le climate litigation nel nostro Paese.
Negli ultimi mesi c’è un altro precedente che non può non infondere coraggio a chi intraprende la via legale per combattere la crisi climatica: la vittoria delle Klima Seniorinnen svizzere presso la Corte europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), che ha riconosciuto il diritto alla protezione del clima come un diritto umano.
Norma Bargetzi e Bruna Romanelli sono due delle protagoniste di questa vicenda che ha avuto un’eco mediatica globale. Nella casa di Norma, a poche centinaia di metri dal lago di Lugano, ci narrano dei numerosi tentativi compiuti presso le corti svizzere, senza alcun successo. Il casus belli era sempre lo stesso: lo Stato non protegge i cittadini dalla crisi climatica, anzi, è responsabile del suo perdurare. “Per questo, su consiglio dei nostri validissimi avvocati, abbiamo deciso di rivolgerci alla CEDU”, ci raccontano Norma e Bruna.
L’associazione Anziane per il clima Svizzera, fondata nell’agosto 2016, all’inizio contava circa 150 socie. Oggi vi aderiscono oltre 2500 socie in tutta la Svizzera con un’età media di 73 anni. Dato che le anziane appartengono alla fascia di popolazione che risente maggiormente dei crescenti fenomeni di caldo estremo e che l’associazione rappresenta i loro interessi, possono diventare socie soltanto le donne in età pensionabile dai 64 anni. “Ma noi lo facciamo per le generazioni future, per lasciar loro un Pianeta vivibile e non devastato da eventi climatici estremi”, ci dicono in coro le due combattive signore svizzere.
Il 29 marzo 2023 si è tenuta l’udienza pubblica dinnanzi alla Grande Camera, che poi dopo circa un anno ha dato ragione alle Klima Seniorinnen. Ora il governo elvetico ha l’obbligo di dare seguito a quanto previsto nella sentenza, sebbene il Parlamento si sia già messo di traverso, di fatto non riconoscendo quanto stabilito dai giudici di Strasburgo. “Ma noi non ci facciamo spaventare, andiamo avanti e vogliamo far valere le nostre ragioni”. E non c’è dubbio che lo faranno con la determinazione che le ha rese famose in tutto il Pianeta.