Nelle ultime settimane, l’organizzazione non governativa Food and Water Action Europe ha provato a fare chiarezza rispetto al ruolo delle importazioni di gas naturale liquefatto (GNL) nel mercato Europeo nell’attuale crisi, con bollette alle stelle in quasi tutti i paesi membri dell’Ue (e nel resto del mondo). Nella narrazione dominante sulla necessità di espandere il mercato del gas, proprio il gas importato via nave – quindi il GNL – sarebbe dovuto essere la chiave di volta per abbassare i prezzi e garantire ai paesi dell’Ue fonti alternative alla Russia. Dati alla mano, non è andata esattamente così.
Negli ultimi quindici anni, in Europa sono state costruite decine di terminal GNL, per lo più finanziati con risorse pubbliche. Molti di questi sotto spinta degli Stati Uniti, divenuti paese esportatore di gas sull’onda dell’espansione del fracking finanziata dalle varie amministrazioni a stelle e strisce, con conseguenze importanti sull’ambiente e il clima. Due dei tre rigassificatori italiani sono stati costruiti in quel periodo temporale: Adriatic LNG situato a largo di Rovigo, entrato in funzione nel 2009, e FSRU Toscana (OLT- Offshore Lng Toscana) a 22 chilometri dalla costa tra Livorno e Pisa, operativo dal 2014 dopo anni di ritardo e costi schizzati alle stelle. Per giustificare l’impiego di fondi pubblici per questi impianti, si sosteneva che avrebbero garantito la possibilità di acquistare gas sul mercato spot (a breve termine) e che quindi i prezzi della materia prima si sarebbero abbassati facilitando l’accesso in Europa di gas che proveniva anche da altri continenti.
Eppure i prezzi del gas sono oggi alle stelle e i terminal GNL costruiti negli ultimi anni sono ampiamente sotto-utilizzati: secondo la ricerca di FWA Europe fra gennaio 2021 e gennaio 2022 solo il 40% della capacità installata sarebbe stata utilizzata per importare gas sul mercato europeo. Tutta la “flessibilità” promessa quindi dai terminal GNL era per le aziende (e a loro vantaggio) e non tanto per i consumatori: quando a ottobre i prezzi del gas in Asia erano saliti anche del 500%, le forniture via nave su scala globale sono state dirottate verso la regione asiatica che permetteva di fare i profitti più alti. Cioè mentre ai vari Consigli europei i ministri discutevano di inchieste dell’antitrust contro la Russia, passava sotto traccia che la strategia di diversificazione messa in piedi dall’Ue stava dimostrando tutta la sua inadeguatezza. Il mercato ha prevalso sulla sicurezza energetica, e il costo della dipendenza dal gas ricade proprio sulle nostre spalle.
E in Italia cosa è successo? Due su tre dei terminal di rigassificazione, Panigaglia LNG a La Spezia, di proprietà di Snam, e OLT, anche questo controllato da Snam, hanno funzionato solo al 26%. Il rigassificatore di Rovigo, Adriatic LNG, controllato da ExxonMobil Italiana Gas – società del gruppo statunitense ExxonMobil – ha invece funzionato per il 92% della sua capacità, più di ogni altro terminal LNG in Europa. Il gas importato veniva principalmente dal Qatar, da dove appunto esporta la statunitense Exxon tramite la sua joint ventures.
I terminal LNG non sono serviti nemmeno a ridurre le importazioni dalla Russia. Abbiamo visto che gli esportatori russi hanno saputo trarre vantaggio anche dalle rotte del gas via mare: già a febbraio 2019, proprio la Russia saliva in vetta alla classifica dei principali fornitori di GNL sul mercato europeo. I dati dei primi nove mesi del 2021 vedono la Russia al terzo posto dei fornitori di GNL, per scalare al quarto alla fine dell’anno con l’acuirsi della crisi con l’Ucraina. I primi fornitoreidi GNL per i primi nove mesi del 2021 sono stati gli Stati Uniti, seguiti da Qatar e Russia, per una fornitura complessiva di 58 miliardi di mc di gas. Mentre nell’ultimo trimestre è salito al primo posto il Qatar, seguito da Stati Uniti, Nigeria, e Russia.
In questa fase molto turbolenta dovuta alla pandemia e alla guerra in Ucraina, forse ci sono alcune lezioni che possiamo trarre: la scelta di puntare tutto sul gas, a livello europeo ma ancora di più a livello italiano, ha aumentato la nostra vulnerabilità. Il prezzo del gas dipende da molte variabili, incluso da spinte speculative legate al prezzo futuro, come già abbiamo visto nel caso del petrolio, e le infrastrutture necessarie a mantenere questo sistema sono importanti, per buona parte coperte da investimenti pubblici, e il loro costo viene in buona parte scaricato sugli utenti finali mentre le aziende distributrici incassano lauti profitti. Ma soprattutto, e ancora di più in questa crisi, oltre al prezzo in bolletta il costo nascosto del gas è quello che stiamo già mettendo sulle spalle delle generazioni future. Il suo impatto climalterante, 86 volte quello della CO2 su un arco di 20 anni, e il suo impatto sull’ambiente (in particolare in caso di gas estratto tramite la tecnica del fracking, che ha già segnato in maniera indelebile il territorio statunitense) sono esternalità che le aziende scaricano ancora una volta sulle spalle del pianeta intero. In questa situazione, l’unica risposta sensata sembra quella di lasciare il gas nel sottosuolo e investire veramente in un cambio di modello energetico che ci permetta di abbandonare il prima possibile i combustibili fossili e tutto il loro fardello di devastazione ambientale e sociale.