La falsa soluzione di Ravenna

“La falsa soluzione di Ravenna” è il nuovo rapporto di ReCommon sul primo progetto di cattura e stoccaggio di CO2 (CCS) promosso da Eni e Snam in Emilia Romagna. Entro il 2030 le infrastrutture legate al CCS si allargheranno a dismisura, ma intanto la prima fase beneficia di agevolazioni normative ed economiche fuori dal comune, con palesi conflitti di interessi ed eccezioni di comodo, come l’assenza di valutazione ambientale. Il tutto per una tecnologia poco efficace, costosa e non scevra di rischi.  

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“La normativa sul CCS è l’ennesimo favore ai campioni nazionali del fossile, ovvero Eni e Snam. Questo sebbene la tecnologia del CCS sia controversa perché molto costosa e poco efficace. Negli anni a venire, come sta accadendo in Inghilterra, è molto probabile che saranno i finanziamenti statali a pagare il conto salato del CCS” ha dichiarato Eva Pastorelli di ReCommon, autrice del rapporto.

“L’area interessata dallo sviluppo dei progetti CCS è già pesantemente colpita da eventi climatici estremi e dal fenomeno della subsidenza. La realizzazione di nuove infrastrutture su terra e in mare pone quindi dei rischi ulteriori ma soprattutto la vincola ancora a un modello fossile che è la sua maledizione” il commento di Elena Gerebizza, anche lei autrice dello studio.

Il progetto

Il progetto è denominato Ravenna CCS ed è il primo per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica in fase di realizzazione in Italia su iniziativa delle due grandi corporation fossili a controllo pubblico, Eni e Snam. Dalla prima proposta avanzata da Eni nel 2021, nel contesto del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il progetto si è evoluto, collegando alla cattura e stoccaggio una serie di infrastrutture in mare e su terra orientate a raccogliere e trasportare la CO2 dall’Emilia Romagna e dal Veneto verso gli impianti Eni di Casalborsetti, in provincia di Ravenna. Qui si trova la centrale dove viene raccolto e processato il gas estratto da Eni nei diversi giacimenti offshore nell’Alto Adriatico. Proprio questa centrale costituisce il primo impianto a cui Eni applica la tecnologia della cattura della CO2 e, riutilizzando dei gasdotti già esistenti e riadattati, vuole trasportarne 25mila tonnellate l’anno verso il giacimento esausto di Porto Corsini Mare Ovest. A Ravenna CCS si collega così il progetto CCS Pianura Padana che prevede di costruire, sempre a Casalborsetti, una centrale di compressione dove verrà convogliata la CO2 raccolta inizialmente dalle zone industriali di Ferrara e di Ravenna, con una rete di circa 100 chilometri di gasdotti dedicati al trasporto della CO2, quasi interamente da costruirsi, e successivamente anche dal polo industriale di Marghera. La raccolta della CO2 da questi impianti avverrebbe nella cosiddetta Fase 2, o fase industriale del progetto, a partire dal 2027, in cui Eni e Snam promettono di trasportare e stoccare, questa volta in maniera permanente, fino a 4 milioni di tonnellate di CO2 l’anno entro il 2030. Ma i sogni di “gigantismo” vanno oltre, con un’espansione ulteriore in un progetto ancora più grande, denominato Callisto e guidato dalla società francese Air Liquide. Callisto prevede la liquefazione e il trasporto via nave della CO2 raccolta nel polo industriale della Valle del Rodano, Marsiglia e Fos, fino ai giacimenti offshore di Eni al largo di Ravenna. In questa sua forma transnazionale l’opera è inserita nel quadro dei Progetti di interesse comune europei, potrà beneficiare di finanziamenti e comporterà un movimento e stoccaggio complessivo di CO2 fino a 16 milioni di tonnellate l’anno.   

Una normativa “amica” delle multinazionali fossili

L’articolo 7 della Legge n. 11 del 2 febbraio 2024 sembra contenere un palese conflitto di interessi nella parte in cui prevede che il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (MASE) possa avvalersi “(…) di società aventi comprovata esperienza nei settori della cattura, trasporto e stoccaggio di CO2 (…)” per la predisposizione di uno studio che strutturi l’intera impalcatura normativa, nonché la regolazione tecnica, economica e finanziaria della filiera della CCS in Italia. Questo passaggio delinea un quadro in cui potranno essere le stesse Eni e Snam a “(…) definire le modalità per la remunerazione ed eventuali meccanismi di supporto per le diverse fasi della filiera della cattura trasporto utilizzo e stoccaggio della CO2”. Ossia, le aziende che promuovono la CCS come tecnologia centrale per il processo di decarbonizzazione sono quelle che potrebbero scrivere, beneficiandone, una normativa che potrà riconoscere loro laute remunerazioni e incentivi per “il servizio” offerto. Remunerazioni che proverranno, con alta probabilità, dal bilancio dello Stato, come già accaduto nel Regno Unito. Qui le corporation fossili hanno esercitato un’intensa attività di lobbying sul dipartimento per la Sicurezza energetica e Net Zero per garantire sussidi al settore CCS: le aziende, tra cui Eni, hanno ottenuto l’impegno da parte del governo laburista a destinare quasi 22 miliardi di sterline (più di 26 miliardi di euro) in 25 anni al finanziamento di progetti di cattura e stoccaggio della CO2.

Ma la normativa è stata ulteriormente generosa con Eni e Snam, che hanno beneficiato di un’eccezione che prevede che progetti sperimentali per lo stoccaggio fino a 100mila tonnellate di CO2 potessero partire senza una valutazione degli impatti ambientali. Tuttavia, dalla fase industriale il progetto CCS di Ravenna dovrà ottenere un’autorizzazione che passi anche da una valutazione degli impatti.

I costi a carico dello Stato e delle comunità

La normativa sul CCS prevede che tutti gli obblighi relativi al monitoraggio e alla restituzione di quote di emissione in caso di fuoriuscite siano trasferiti, dopo soli venti anni – o anche prima, se sono soddisfatte alcune condizioni – dalle aziende al ministero dello Sviluppo economico. Così non si considera che la cattura della CO2 nel sottosuolo rientra nel campo dei processi geologici, che avvengono su una scala di tempi enormemente più lunga di quella umana. Oggi è impossibile determinare il rischio di fuga della CO2 dai depositi CCS attraverso le strutture geologiche esistenti o a seguito di eventi catastrofici naturali come terremoti, che possono avvenire anche in un lontano futuro. Questa sottovalutazione del rischio è ancora più allarmante se si considera che il progetto Ravenna CCS insiste su un’area già provata dal fenomeno della subsidenza indotta da attività estrattive, di stoccaggio, di iniezioni fluidi su giacimenti offshore e in terraferma.

Inoltre Eni e Snam sono state esentate dal presentare una garanzia fideiussoria a copertura dei costi in caso di fuoriuscite o irregolarità significative, in quanto il progetto è “sperimentale” e quindi viene agevolato nel proprio sviluppo, sia in termini economici che in termini autorizzativi, non essendo stato sottoposto allo scrutinio che una valutazione di impatto ambientale avrebbe richiesto.

Ma i costi più alti saranno sostenuti ancora una volta dalle comunità interessate dalla fase industriale del progetto Ravenna CCS, che vedrà la costruzione delle infrastrutture su terra che dovranno trasportare la CO2 per centinai di chilometri: dalla provincia di Ferrara al ravennate, attraversando zone abitate e cementificate ma anche pregevoli aree naturali e siti della Rete Natura 2000. Posare a terra centinaia di chilometri di condutture che trasportano CO2, che con una concentrazione del 4% nell’atmosfera diventa asfissiante, vuol dire vincolare qualsiasi decisione futura sulla gestione del territorio alla tutela e sicurezza di queste infrastrutture. Quale analisi costi-benefici potrebbe giustificare delle ricadute economiche e sociali così gravose, considerando che i benefici di una “soluzione” come la CCS sono dubbi? È una domanda che rimane aperta, perché purtroppo il documento di analisi costi-benefici non è pubblicamente accessibile.

Una tecnologia inefficace e rischiosa

Uno studio pubblicato nel 2022 dall’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA) ha rivelato che 10 tra i 13 maggiori impianti CCS al mondo analizzati (che ammontano a circa il 55% della capacità nominale di cattura installata a livello globale) o sono ampiamente sottoperformanti o sono falliti. La performance economica e ambientale dei progetti di CCUS (Carbon Capture, Utilization, and Storage) finora approvati è stata analizzata nel 2023 da Oil Change International, che arriva a conclusioni ancora più allarmanti. Non solo i principali impianti di CCS negli USA, Australia, e Medio Oriente operano a capacità significativamente ridotte (tra il 10 e il 60 %), ma la maggior parte degli impianti di CCS operativi utilizzano la CO2 per estrarre ulteriormente idrocarburi attraverso il processo di Enhanced Oil Recovery. Lo studio conclude che “molti dei più grandi progetti di CCS al mondo promettono troppo e mantengono poco”. Ancora, nel 2023, un team di ricerca dell’Università di Oxford ha pubblicato uno studio dettagliato della fattibilità economica dei vari scenari IPCC con CCS. La conclusione è che i governi che mettono il CCS al centro delle strategie nazionali di decarbonizzazione rischiano di auto-vincolarsi a strategie svantaggiose e non competitive.

Tra gli incidenti registrati finora, un caso di rilievo è quello di Satartia, nel Mississippi, dove nel febbraio 2020, in seguito alla rottura di un gasdotto per il trasporto di CO2, l’intera popolazione del villaggio è stata evacuata. Quando le concentrazioni di CO2 aumentano e i tempi di esposizione si allungano, il gas provoca una serie di effetti che vanno dalla perdita di coscienza al coma, fino alla morte. Anche a livelli più bassi, la CO2 può agire come un intossicante.

Il progetto CCS Pianura Padana sembra costruito su una scommessa: che vada tutto bene. Oltre ad essere esposte agli eventi climatici estremi purtroppo noti, le province di Ravenna e Ferrara sono anche abitate. Qualsiasi incidente andrebbe a impattare direttamente le persone che abitano il territorio attraversato. In prospettiva futura, legata alla Fase 2, va sottolineato poi come buona parte della tratta del gasdotto da costruirsi tra Ferrara e Casalborsetti, che interessa i comuni di Argenta e Alfonsine, ricada in una zona sismica. Un fattore che non viene messo in relazione con l’effetto che un evento sismico potrebbe avere sulle infrastrutture su terra, e neppure con l’effetto che l’iniezione massiccia ad alta pressione di CO2 (che assume in queste condizioni lo stato liquido) nei giacimenti offshore avrebbe sul sottosuolo.

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