Kashagan: il più grande fallimento dell’industria petrolifera?

Impianti a terra nei pressi di Aktau, Mar Caspio. Foto FoE France, 2007

[di Elena Gerebizza]

“Cash All Gone”, ovvero soldi persi. È questo il nomignolo affibbiato dai giornalisti finanziari a Kashagan, il mega giacimento nel Mar Caspio su cui hanno messo le mani una cordata di major del petrolio occidentali già nel 1998.

La firma del contratto venne da allora urlata ai quattro venti (ma soprattutto ai mercati finanziari) come l’affare del secolo. Dopo 16 anni di lavori, l’Economist ha bollato Kashagan come il “più grande fallimento dell’industria petrolifera”.

Non è un mistero che in questi anni la costruzione degli impianti di Kashagan sia avanzata a rilento e tra enormi difficoltà: parte del “fascino” di questo mega giacimento di petrolio e gas deriva proprio dalle sfide tecniche che pone la sua esplorazione, in un ambiente particolarmente ostile, con inverni freddissimi dove la temperatura scende a -40C, ed estati torride con il termometro oltre i 40C, un mare profondo pochi metri sotto cui si cela un mare di petrolio e gas a oltre 5000 metri di profondità.

Kashagan dall’inizio è stato presentato da Shell e Eni – che si sono alternate alla guida del consorzio Agip KCO, poi divenuto NCOC, North Caspian Operating Company – come una grande sfida, per le aziende e per l’industria petrolifera stessa. Una sfida già costata ben 43 miliardi di dollari, come ricorda l’Economist, ovvero 30 miliardi in più rispetto alla stima iniziale. E molte sono le risorse che ancora devono essere spese: secondo le stime del 2012, servirebbero 187 miliardi di dollari per portare la fase operativa a pieno regime.

Nella primavera del 2013, quando Paolo Scaroni, allora amministratore delegato dell’Eni, società responsabile del completamento della prima fase del progetto, ha risposto alle domande in merito rivolte dagli azionisti della società, ancora c’era l’ottimismo per dire che il processo di avviamento sarebbe iniziato a metà anno, e la produzione nelle settimane successive, quando tutti i test sugli impianti sarebbero stati completati.

Poi quello che in molti temevano è successo, ovvero i tubi non hanno retto alla forte presenza di solfati contenuti nel petrolio e nel gas di Kashagan, che salgono in superficie con una pressione e a una temperatura molto alte, e con una potenza corrosiva enorme. Così, allo scorrere del primo petrolio, i tubi che collegano l’isola offshore agli impianti di processamento su terra ferma si sono corrosi, e le operazioni sono state bloccate. E l’avvio della produzione di Kashagan è stato procrastinato per l’ennesima volta (la prima scadenza era il 2005), forse addirittura al prossimo anno, dopo che i ghiacci dell’inverno caspico si saranno sciolti e la società potrà completare il cambio delle tubature, aggiungendo circa 5 miliardi di dollari ai costi del progetto.

Insomma Kashagan non sembra questo grande affare, non fino ad oggi e non per il governo kazako – che sulla base delle clausole del contratto ha dovuto farsi carico di buona parte dei costi finora sostenuti – né per l’Eni, che nel dicembre 2012 aveva già sborsato 7,5 miliardi di dollari.

Quello che i giornalisti finanziari non raccontano è che Kashagan è al centro di un’indagine anticorruzione internazionale, aperta già nel 2011 proprio per capire meglio le anomalie legate ad aumenti dei costi così importanti. E non raccontano nemmeno quale sia stato nel frattempo l’impatto delle costruzioni sul fragile ecosistema del mar Caspio, e sulla vita delle persone che vivono in quell’ambiente così difficile. Da Atyrau ad Aktau, la scoperta di questo gigante offshore ha segnato profondamente la vita delle persone e dell’ambiente.

Già nel 2007, quando una missione internazionale di organizzazioni ha visitato le comunità interessate dai lavori di costruzione (tra cui la CRBM, vedi il rapporto a questo link), gli impatti sull’ambiente e sulla salute delle persone erano preoccupanti. Era evidente che quelle che gli “esperti” vedevano come sfide tecnologiche, erano fonte di preoccupazione estrema per i residenti, poco o per niente informati sui dettagli del progetto ma purtroppo consapevoli di cosa sarebbe potuto succedere a loro in caso di un incidente.

L’effetto delle emissioni di idrogeno solforato (H2S) presente in quantità importanti (18-20%) nel petrolio e gas di Kashagan è cosa altrettanto nota alle autorità sanitarie del paese, che già sollevavano domande importanti in merito alla salute pubblica e alla possibilità di tutelare quella parte di Mar Caspio ancora incontaminata, a ridosso delle piattaforme offshore. Insomma “Cash All Gone”, ma se governi e industria dovessero perdere la sfida tecnologica i danni chi li paga?

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