Pochi giorni fa, il primo gruppo bancario italiano ha annunciato di aver individuato i soggetti beneficiari di una donazione di 10 milioni di euro per contrastare le conseguenze della crisi in Ucraina, soprattutto quelle subite dalle fasce più vulnerabili della popolazione. Un’iniziativa sicuramente lodevole. Tuttavia, non possono non sorgere degli interrogativi, alla luce di una mancata assunzione pubblica di responsabilità sul sostegno al settore oil&gas russo e alle relazioni privilegiate con Mosca, in essere fino a poche settimane prima dall’inizio della guerra. Petrolio e gas che rappresentano il bancomat dello sforzo bellico russo in Ucraina.
A sette mesi dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, si inizia a respirare un clima di assuefazione alla guerra, alimentato da cronache dal fronte sempre più sterili: non si parla abbastanza della quotidiana resistenza da parte della popolazione civile ucraina, mentre l’opposizione alla guerra in Russia è caduta nell’oblio. In pochi – e sicuramente con bassa esposizione mediatica – hanno avuto la capacità di denunciare la scarsa volontà politica, sul piano internazionale, di lavorare per la pace. Nel caso dell’Italia, il dibattito pubblico è stato pressoché monopolizzato dalle conseguenze materiali della guerra, tra cui – giustamente – la questione energetica, sebbene sia stato silenziato sin da subito quello relativo alle cause, elemento necessario per non reiterare gli errori del passato.
Possiamo quindi porre sullo stesso piano una donazione di 10 milioni di euro a fronte di 9,13 miliardi di dollari stanziati negli ultimi anni da Intesa Sanpaolo a Gazprom, Rosneft e Lukoil? Sono i dati che emergono da un recente studio di Leave It In the Ground Initiative (LINGO), che ha calcolato – tra le varie cose – il sostegno finanziario alle società russe coinvolte nelle ‘bombe climatiche’ sul territorio nazionale, cioè quei progetti fossili che pongono una minaccia esistenziale al clima e all’ambiente. Oltre ai finanziamenti già denunciati da ReCommon, LINGO tiene conto anche del prestito di 5,4 miliardi di dollari a Glencore e alla Qatar Investment Authority per l’acquisto di una quota di Rosneft, avvenuto nel 2017.
Raggiunto dal Guardian, Kjell Kühne di LINGO ha affermato che «questa [guerra] ha reso molto chiaro che, quando non ci si preoccupa con chi si fanno affari, ciò si traduce in sofferenze umane e vite perse. […] Chiunque sia coinvolto in questi progetti dovrebbe interrogarsi su ciò che sta facendo».
Il team di LINGO ha riconosciuto come, dall’inizio della guerra, le istituzioni finanziarie abbiano ridotto, se non addirittura interrotto, il proprio supporto finanziario alle società russe. D’altra parte, l’approccio appare ancora una volta dettato da mere opportunità di profitto, come riportato anche dal Financial Times. Le istituzioni finanziarie intenzionate a chiudere il proprio business in Russia si sono trovate dinanzi all’ostacolo di un ridotto parterre di acquirenti locali e decreti presidenziali ostili, con il conseguente rischio di dover ‘svendere’ le proprie quote, come nel caso di Société Générale con l’ex-sussidiaria Rosbank.
Intesa Sanpaolo sembra inserirsi in questo solco, dal momento che, fino a pochi mesi fa, affermava di considerare l’opzione di uscire dal paese, attraverso la vendita o la chiusura di Banca Intesa Russia. Eppure, nella Relazione semestrale al 30 giugno 2022, il gruppo di Corso Inghilterra sembra voler fare marcia indietro: si parla di “fase emergenziale superata, in un contesto in cui la crisi ha assunto connotati strutturali”, di “continuità rispetto alla situazione prebellica” e di “mantenimento dell’investimento”. Per Intesa la guerra in Ucraina pare essere divenuta la nuova normalità, dove il tempo potrebbe riportare Putin e il suo regime nell’alveo dei giusti: meglio temporeggiare che perdere relazioni privilegiate.
È interessante notare come sia lo stesso gruppo di Corso Inghilterra a riportare una scarsa preoccupazione per i crediti deteriorati, dal momento che i debitori sono “primari gruppi industriali, contraddistinti da consolidati rapporti commerciali con le principali filiere internazionali ed operanti essenzialmente nei settori delle commodity/energia con rilevanti introiti derivanti dalle attività di esportazione”. Insomma, non c’è timore che i clienti non riescano a restituire i prestiti, dal momento che continuano a fare affari d’oro con petrolio e gas. Inoltre, il gruppo afferma in maniera implicita di aver contribuito in prima linea alla dipendenza italiana dal gas russo, elemento chiave della guerra in corso.
Senza un’assunzione di responsabilità, i 10 milioni di euro in beneficenza di Intesa Sanpaolo vanno ben oltre una generica operazione di facciata: rappresentano una vera e propria ipocrisia. C’è solo una maniera per fare ammenda: uscire dalla Russia e interrompere in maniera definitiva i finanziamenti alle società dei combustibili fossili di quel Paese. In ultimo, per evitare che situazioni simili si ripresentino in altri contesti, la banca deve escludere la possibilità di finanziare le società con piani di espansione del petrolio e del gas, sia sul piano della produzione che su quello del trasporto.