Se la recente visita ufficiale del premier Giorgia Meloni in Algeria doveva inaugurare il nuovo “Piano Mattei” per l’Africa, così come è stato battezzato, le prime avvisaglie non sono di certo incoraggianti. Il solo accennare all’ipotesi di realizzare un nuovo gasdotto Italia-Algeria ha avuto come primo effetto, più o meno desiderato, quello di far infuriare la Tunisia, che teme di rimanere tagliata fuori dalle rotte energetiche.
A confronto con i suoi vicini, la Tunisia non dispone di grandi riserve di petrolio e gas, ciò nonostante riveste un ruolo fondamentale nello scacchiere energetico del Mar Mediterraneo, facendo da ponte di collegamento tra il gas algerino e l’Italia.
Realizzato da Eni nella prima metà degli anni ‘80, il Transmed è un complesso sistema di gasdotti che parte dai pozzi di Hassi R’Mel, in Algeria, per poi attraversare la Tunisia per circa 400 chilometri ed approdare infine sulle coste siciliane, presso Mazara del Vallo. In quanto Paese di transito, Eni deve corrispondere alla Tunisia i cosidetti “diritti di passaggio” del gasdotto, sostanzialmente una tassa che la multinazionale italiana paga sia in denaro che sotto forma di gas.
È quindi normale che la notizia di un’intesa per la costruzione di un collegamento diretto tra Italia e Algeria sia causa di inquietudine per le autorità di Tunisi ed è logico sospettare che Roma e Algeri abbiano voluto mandare un segnale ben preciso a un Paese fortemente indebolito dalla crisi economica e politica che sta attraversando.
Non è la prima volta che il presidente algerino, Abdelmadjid Tebboune, si serve di Roma per inviare un messaggio al suo omologo tunisino, Kaïs Saïed. Durante la sua visita istituzionale in Italia dello scorso maggio, Tebboune aveva sorprendentemente dichiarato che tra i temi trattati c’era anche la Tunisia, affermando che “Algeria e Italia sono pronte ad aiutare il Paese a uscire dall’impasse e a tornare sulla via democratica.” Un’ingerenza mal digerita da Saïed.
Che vi sia un tentativo di indebolire la posizione del governo tunisino appare piuttosto chiaro, la domanda però è cosa ci sia dietro. I motivi di acredine tra Tebboune e Saïed sono diversi e vanno dalla rinnovata allenza di ques’ultimo con il presidente egiziano al-Sisi, alla sua posizione ritenuta ambigua rispetto alla questione del Sahara occidentale, fino all’epurazione del partito di opposizione Ennahda. La partita più importante però sembra giocarsi sul campo dell’energia, ed è qui che Roma e Algeri parlano la stessa lingua.
Come detto in precedenza, l’unica via per esportare il gas algerino via tubo verso l’Europa è rappresentata attualmente dal Transmed e quindi dalla Tunisia, che ne è attraversata. I diritti di trasporto sul gasdotto nel tratto tunisino sono detenuti esclusivamente da Eni, che in cambio corrisponde una tassa di transito allo stato tunisino, pari al 5,25% del valore del gas trasportato. Una transazione che mette d’accordo tutti, ma solo fino a quando tutti vanno d’accordo.
Di fatto, alla Tunisia basterebbe chiudere una valvola per azzerare i flussi di gas algerino verso l’Europa e causare perdite miliardarie sia ad Eni che alla sua omologa algerina Sonatrach. Per questo, aggirare Tunisi tramite un nuovo gasdotto, permetterebbe alle due multinazionali di acquisire ancor più potere, specie ora che i depositi algerini fanno gola a mezza Europa, impegnata nella corsa a rimpiazzare il gas russo.
Ragionando sul presente, è bene precisare che la Tunisia non avrebbe alcun interesse a mettere a rischio le esportazioni energetiche algerine, tanto più che ne è essa stessa dipendente per il 70% del proprio fabbisogno di gas. La realtà però non è data solamente dall’aritmetica degli interessi, ma anche da conflitti, a volte imprevedibili, che possono cambiare rapidamente gli equilibri.
La provincia di Majel Bel Abbès si trova all’estremo ovest della Tunisia, nella regione di Kasserine, a pochi chilometri di distanza dal confine con l’Algeria. Qui il Transmed entra in territorio tunisino, come testimonia la presenza di una grande centrale di compressione operata da Sergaz, società controllata al 65% da Eni, che ha recentemente ceduto metà della sua quota a Snam.
Nonostante passino da qui circa 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno, Majel Bel Abbès si trova al terzultimo posto dell’indice di sviluppo nazionale. Questo territorio molto povero e storicamente marginalizzato è stato oggetto in passato di attacchi terroristici che hanno portato alla sua parziale militarizzazione. Ancora oggi, per accedere alle zone più vicine al confine, è necessario un permesso speciale da parte del ministero della Difesa.
Il forte contrasto tra la ricchezza che attraversa il loro territorio, sotto forma di gas destinato all’Italia, e la povertà in cui sono costretti a vivere ha spinto gli abitanti di Majel Bel Abbès a ribellarsi.
“Il pensiero che qui ci sia una multinazionale miliardaria, mentre noi non abbiamo nemmeno l’acqua potabile, mi fa arrabbiare moltissimo” ci spiega Mounir F., consigliere provinciale di Majel Bel Abbès, “C’è gente che abita a pochi metri dal gasdotto e non ha il gas per la propria casa. Soffriamo per il benessere degli italiani!”
Mounir non è di certo l’unico a mal sopportare questo paradosso, come testimoniano le numerose proteste che sono scoppiate nel corso degli anni. “Ci siamo informati, abbiamo capito che dietro Sergaz c’è Eni, e che Eni è un gigante”, Khaled, di mestiere insegnante, è il portavoce del comitato locale della provincia. “Per questo abbiamo deciso di portare la nostra protesta dentro la loro centrale.”
La centrale di compressione a cui si riferisce Khaled si trova a una decina di chilometri dal centro abitato, a ridosso del confine con l’Algeria. Nel corso degli anni, il comitato locale ha più volte organizzato dei sit-in di fronte allo stabilimento, ma senza risultati.
Mosse dalla frustrazione, a dicembre del 2020, centinaia di persone fanno irruzione dentro la centrale della Sergaz, per poi essere respinte dalle forze di sicurezza. A quel punto, i manifestanti creano un accampamento permanente fuori dai cancelli dell’impianto, per chiedere che una parte dei profitti di Sergaz sia destinata allo sviluppo del territorio.
Il tentativo di occupazione della centrale scatena il panico nel governo. Secondo quanto riportato dai media, le autorità italiane e quelle algerine si sarebbero immediatamente mobilitate per fare pressione su Tunisi affinché venisse ripristinato l’ordine.
Nel giro di pochi giorni, l’esercito interviene con il massimo della forza, facendo un uso massiccio di lacrimogeni e arrivando persino a sparare proiettili veri. Secondo il ministero della Difesa si trattava di “colpi in aria per disperdere la folla”, ma dalle foto che ci mostrano gli abitanti di Majel Bel Abbès si vedono chiaramente i fori di proiettile su un’automobile.
“Quando abbiamo sentito gli spari ci siamo messi paura” ricorda Khaled, “In quell’istante abbiamo capito che erano pronti ad ammazzarci pur di non farci entrare nell’impianto.” Nonostante la repressione dei militari, il presidio continua per diverse settimane ma di fronte un’altra installazione della Sergaz, meno sensibile. Alcuni presidianti entrano in sciopero della fame, ma nemmeno questo serve. “Nessuna delle nostre richieste è stata accolta” ci dice Khaled.
La pandemia di Covid-19 ha momentaneamente indebolito le mobilitazione, ma già nel marzo di quest’anno, gli abitanti di Majel Bel Abbes sono di nuovo tornati a protestare. “Una cooperazione che non vuole essere predatoria, che vuole lasciare qualcosa nelle nazioni”, con queste parole la premier Meloni, in visita a Tripoli accompagnata dall’ad di Eni Descalzi, ha dipinto il cosidetto nuovo Piano Mattei per l’Africa. Sarebbe forse più appropriato chiamarlo “piano Descalzi”, lasciando da parte i riferimenti a chi appartiene a un’altra epoca.
E soprattutto dovremmo chiederci che cosa l’Eni di Descalzi lasci nei Paesi africani in cui opera. O meglio ancora potremmo domandarlo a chi in quei Paesi ci vive e molto spesso di Eni farebbe volentieri a meno.