Il libro del mese: TUTTE LE COLPE DEI PETROLIERI

L’acuirsi della crisi climatica è ormai sotto gli occhi di tutti. I suoi effetti sono fin troppo tangibili e attuali, tanto che anche i governanti dei paesi più ricchi sembra si stiano rendendo conto che così non si può andare avanti. Serve un’inversione di rotta, che però si sarebbe dovuta intraprendere già da diversi anni. Serve anche che coloro i quali sono in larga parte responsabili per la situazione attuale stacchino assegni miliardari per provare a risolvere il problema più grande dell’umanità: un Pianeta così surriscaldato da risultare fuori controllo.

Nel libro “Tutte le colpe dei petrolieri” (Piemme Edizioni), il giornalista d’inchiesta Stefano Vergine e il professore universitario esperto di temi ambientali Marco Grasso mettono in fila le enormi responsabilità del settore estrattivo, che a scapito della Terra ha incamerato immensi profitti, ipotizzando però quale dovrebbe essere il suo contributo economico per curare la nostra malridotta casa comune. Calcoli fatti dati alla mano, tenendo conto delle emissioni generate dalle attività delle oil major e dei danni inferti al clima, per arrivare a importi se vogliamo anche conservativi e spalmati su 30 anni per permettere alle compagnie di poter onorare i pagamenti. Così il Creso delle multinazionali petrolifere europee, l’anglo-olandese Shell, si troverebbe a pagare 72 miliardi di dollari, mentre la Saudi Aramco, di proprietà del governo dell’Arabia Saudita, circa 195.

Ma a fronte delle dettagliate tabelle presenti nel libro, gli autori ci tengono a sottolineare che finché le multinazionali estrattive continueranno a puntare forte tutto il loro business sui combustibili fossili (nel 2019 ben il 99,2% dei loro investimenti) c’è poco da stare allegri.

Così come c’è poco da essere ottimisti alla luce del comportamento dei governi. E qui gli autori pongono delle domande giuste, giustissime. Perché tanti esecutivi destinano più soldi ai combustibili fossili che alle rinnovabili? Perché incentivano la realizzazione di nuovi gasdotti?

Così spuntano decine di sepolcri imbiancati che si rifanno alla narrazione che il gas potrebbe essere la soluzione per ridurre gli effetti della crisi climatica. Una falsa soluzione, perché il gas è un combustibile fossile e le sue emissioni di gas serra sono tutt’altro che trascurabili.

D’altronde governi e corporation hanno fatto della menzogna sul clima una vera e propria arte, perfezionata negli anni. Grasso e Vergine ci tengono a sgombrare il tavolo da fraintendimenti affermando in maniera perentoria che i cambiamenti climatici sono in atto e sono di origine antropica. Chi lo nega mente sapendo di mentire, perché a livello scientifico su questo assioma si è raggiunto il cosiddetto gold standard, ovvero c’è talmente consenso che si pensa esista solo una possibilità su un milione di errore. Un utile pro-memoria, specialmente in un Paese dove si leggono editoriali al vetriolo e articolesse sui movimenti per la giustizia climatica e i loro portabandiera.

Le verità sugli effetti del comparto dei combustibili fossili sul clima erano conosciute da tempo, troppo tempo, forse addirittura dagli anni Cinquanta.

Tanto per citare solo una delle “perle” menzionate nel libro, negli anni Settanta scienziati della potentissima società statunitense ExxonMobil avevano realizzato uno studio che prevedeva le attuali emissioni di CO2. E le avevano imbroccate. Bene, bravi bis. Peccato che la major americana facesse del tutto per negare e smentire quello studio. Però sapeva fin troppo bene la cruda verità.

Non che i governi fossero da meno. Gli Stati Uniti erano a conoscenza del problema dagli anni Settanta. È passato mezzo secolo…

Il libro termina con una sostanziosa nota di speranza: da Greta Thunberg a papa Francesco, sempre più persone consapevoli si battono contro la crisi climatica. Ma soprattutto si sta facendo strada quella che se realizzata diventerebbe una vera e propria rivoluzione copernicana: lasciare il petrolio e il gas nel sottosuolo. Un concetto ormai non più caro solo a qualche ambientalista visionario (compresi noi di ReCommon), ma che trova spazio nella comunità scientifica. Uno studio pubblicato su Nature nel 2015 affermava che per mantenere l’aumento della temperatura sotto i due gradi entro il 2050 serve lasciare intoccate metà delle riserve di gas, un terzo di quelle di petrolio e l’80% del carbone.

Di conseguenza tante delle risorse a disposizione delle multinazionali estrattive diverrebbero degli stranded asset, ovvero beni inutilizzabili e quindi in perdita. Il tutto anche a causa della crescente pressione dell’opinione pubblica sui governi, delle cause legali spuntate in ogni angolo del Pianeta contro compagnie colpevoli di aver occultato preziose evidenze scientifiche sulle conseguenze nefaste dello sfruttamento dei fossili e di un possibile corto-circuito finanziario, perché banche a assicurazioni ascoltano attivisti ma anche investitori “illuminati” che li ammoniscono che mettere miliardi di dollari in gas, petrolio e carbone è una pessima scelta. Insomma, qualche speranza c’è, ma bisogna fare in fretta. E far pagare il conto ai petrolieri.

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