Bisogna rinegoziare il debito. Non è un’eresia: è salvare l’Italia – Intervista ad Antonio Tricarico

Antonio Tricarico
Antonio Tricarico

Intervista di Francesco Martone – uscita su Pubblico dell’ 11/11/2012 –

Di fronte a un debito che viaggia verso i 2.000 miliardi e che dopo vent’anni di privatizzazione e sacrifici continua a crescere, ha senso immaginare un audit sul debito pubblico italiano, che valuti cosa e come vada ripagato?

Antonio Tricarico – una lunga esperienza nell’associazionismo impegnato sulla riforma del sistema finanziario internazionale – da un po’ di tempo sta studiando l’ipotesi.

Un argomento che fa inorridire tecnici ed economisti di varia tendenza.
In effetti. Eppure, mettere in discussione il pagamento del debito e rinegoziarlo è forse l’unica opzione rimasta per scongiurare una nuova privatizzazione dei beni rimasti in mano allo Stato per fare cassa, come il governo si appresta a fare. In gergo si chiama default, e al solo nominarlo si agitano spettri, quali la fine della circolazione della moneta ed il blocco dei bancomat. Eppure dall’Unità al dopoguerra in Italia per quattro volte il debito pubblico è stato rinegoziato unilateralmente. Alla fine dell’ottocento, dopo la prima guerra mondiale, durante il fascismo, e subito dopo la seconda guerra mondiale. In tutti questi casi  il governo ha imposto un aggiustamento nel pagamento degli interessi e nella durata del prestito, oppure svalutazione e inflazione hanno fatto la loro parte per buttare giù il valore del debito. Rivolte sui mercati non sono scoppiate. Anzi, la retorica del “salva-Italia” ha funzionato. Oggi quella retorica si usa in senso opposto: le divinità dei mercati finanziari non vanno sfidate neanche a parole e ridiscutere il pagamento del debito rimane una eresia.

Ma chi possiede il nostro debito? Chi perderebbe da una sua rinegoziazione?
Un 15% è costituito da debito degli enti locali spesso contratto con banche o da soldi che il Tesoro e la Cassa depositi e prestiti si scambiano tra loro. Il rimanente 85% è in titoli di Stato: un 5% lo ha la Banca d’Italia e un 15% piccoli risparmiatori. Il resto lo possiedono fondi, grandi banche ed assicurazioni: circa 700 miliardi di euro sono di grandi investitori italiani e 700 stranieri.

Rivedere il debito vuol dire anche ricostruire la sua storia. Come si è giunti a un debito di tale portata?
Il debito è decuplicato dal 1980 al 1996. Senza dubbio si è speso spesso in maniera irresponsabile, se non corrotta, in quegli anni. Ma facendo i conti, la realtà è un po’ diversa. Infatti i disavanzi primari – ossia la differenza tra entrate e uscite al netto del pagamento degli interessi sul debito – hanno pesato solo per 150 miliardi circa in tutto quel periodo. Determinanti sono stati i tassi d’interesse molto alti, imposti dalla Federal Reserve americana. L’Italia ha cominciato a pagare tassi di interesse reali da usura: figli anche dell’ideologia “monetarista”, che impose la separazione tra Tesoro e Banca d’Italia, proibendo a questa di comprare i titoli del Tesoro. Perciò la verità è che l’Italia si è indebitata in primo luogo per pagare gli interessi sul debito. Entrati nel sistema monetario europeo, e cambiata la politica della Fed, il fenomeno è rientrato, ma a quel punto la mole di interessi da pagare era enorme. Negli ultimi 15 anni L’Italia è stata in avanzo primario quasi sempre. Ha prodotto quindi un risparmio pubblico di alcune centinaia di miliardi. Ma il pagamento degli interessi ha continuato a generare deficit e nuovo debito. Ancora nel 2011 abbiamo pagato 78 miliardi di interessi a fronte di un avanzo primario di bilancio di 16 miliardi.

E tutto questo cosa c’entra con una procedura di auditing?
Un audit dovrebbe guardare a tre questioni per stabilire l’eventuale “illegittimità” di una parte del debito. La prima è valutare, gli interessi pagati sugli interessi in seguito a fattori esogeni al comportamento dei creditori o del debitore: in questo caso, la politica monetaria americana. Il secondo aspetto è analizzare quanti soldi pubblici siano stati usati in modo improprio o illegale in una situazione in cui i creditori sapevano di questi rischi – si pensi a ciò che ha scoperchiato Tangentopoli. Infine, guardare alla cattiva gestione della spesa, e quanto sia addirittura avvenuta nell’illegalità. Tutto questo non mette in discussione la legittimità di governi democraticamente eletti, ma la legittimità della relazione creditore-debitore.

Facciamo un esempio concreto?
La vicenda dei derivati, con cui più di 600 enti locali si sono fatti abbindolare da promotori finanziari e che hanno creato enormi perdite. Il Tesoro ha pagato solo alla Morgan Stanley per uscire da questi contratti 3,4 miliardi di dollari. Avrebbe dovuto come minimo aprire un negoziato.

Ammettiamo che si faccia questo auditing, e si dimostrassero elementi di illegittimità. Poi cosa succederebbe?
In pratica, servirebbe una forte posizione politica. Eventualmente da prendere insieme ad altri governi “periferici” europei in difficoltà. In sostanza si dovrebbe mettere sul tavolo la possibilità di congelare il pagamento degli interessi sul debito per forzare i creditori ad aprire un negoziato che procederebbe di pari passo all’audit. E decidere anche come differenziare tra possessori e durata dei titoli, stabilendo gradi diversi di responsabilità.

È facile immaginare l’obiezione: si rischierebbe di mandare il paese in bancarotta.
Non è così. Perché l’Italia ha un avanzo primario, al netto degli interessi. Inoltre l’Italia ha una ricchezza privata di 9.200 miliardi di euro, quattro volte e mezzo il nostro debito. Altra questione è chiedersi come gestire una transizione fuori dalla dittatura dei mercati, per esempio tramite banche pubbliche o altri strumenti.

 

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