Re:Common, l’Ong tedesca Urgewald e la rete europea Banktrack lanciano oggi la loro pubblicazione “Sweeping the dust under the carpet”, in cui evidenzia come il Dow Jones Sustainability Index e FTSE4Good index forniscano delle valutazioni poco aderenti alla realtà in merito alla sostenibilità ambientale, tra gli altri, delle attività di Eni ed Enel.
Nel rapporto si riferiscono numerosi studi sul campo condotti da realtà della società civile globale che di fatto smentiscono le risposte fornite dalle aziende nella serie di domande poste loro dalle società di consulenza utilizzate da Wall Street e dalla City di Londra per compilare gli indici.
Proprio tali risposte non sarebbero verificate con accuratezza, mentre non sarebbe comunicato alcun metodo di analisi da parte dei consulenti che si occupano del rating.
Va evidenziato come, nel caso dell’Eni, la presenza negli indici di sostenibilità sia legata a bonus specifici previsti per l’amministratore delegato e il presidente. In particolare, nel 2013, l’ormai ad uscente Paolo Scaroni avrebbe incassato un bonus di 208.800 euro.
Re:Common e le altre associazioni non reputano che Eni ed Enel abbiano raggiunto gli obiettivi ambientali riportati negli indici.
Per scaricare il rapporto in inglese:
A seguire una sintesi della pubblicazione.
Il Dow Jones Sustainability Index e il FTSEforGood Index sono i più conosciuti sistemi di valutazione sulla sostenibilità ambientale dell’operato delle grandi multinazionali quotate a Wall Street e alla Borsa di Londra.
Re:Common, insieme all’organizzazione tedesca Urgewald e alla rete europea Banktrack, a fine 2013 ha commissionato uno studio indipendente per capire come fosse possibile che corporation spesso attaccate per una condotta poco consona dal punto di vista ambientale siano state invece inserite a più riprese ai vertici dei due indici. Un risultato che ovviamente le imprese, in primis le italiane Eni ed Enel, hanno usato a fini pubblicitari e nei loro rapporti annuali per evidenziare la grande sostenibilità del loro operato. Dalla ricerca è stato tratto un rapporto, “Sweeping dust under the carpet”, di cui di seguito riportiamo una sintesi relativa alle attività dei due colossi energetici nostrani.
Il monitoraggio delle attività delle corporation è stato condotto dalla RobecoSam (per il Dow Jones Sustainability Index) e dalla Eiris (FTSEforGood Index), l’ultima sostituita da quest’anno dalla Sustainalytics.
Quale credibilità?
Entrambe le società di ricerca incentrano il loro lavoro su una serie di domande poste direttamente alle compagnie (nel caso della RobecoSam si varia dalle 80 alle 120). In base alle risposte si stila un punteggio, che costituisce il perno del processo di valutazione. Nonostante le assicurazioni che siano poi condotti degli accurati controlli per appurare la veridicità dei responsi ai quesiti, rimane fortissimo il dubbio che per compilare gli indici ci si basi fin troppo sulle informazioni fornite dalle imprese. Specialmente perché né Dow Jones Sustainability Index né FTSEforGood Index pubblicano alcuna lista parziale degli indicatori degli indici, né un profilo completo dei soggetti privati che rientrano negli indici stessi. C’è quindi una mancanza di trasparenza aggravata da un’asimmetria nella raccolta delle informazioni. Queste ultime dovrebbero essere raccolte il più possibile da soggetti terzi – come accade per lo screening dell’importante Fondo pensione del governo norvegese – mentre nei casi studiati sembra accadere l’esatto contrario. Un’impressione rafforzata dal fatto che il metodo di analisi di entrambi gli indici non è reso pubblico in maniera completa.
Ci sono poi problemi legati all’eleggibilità dei soggetti da esaminare – vengono prese in considerazione solo le compagnie più importanti e più capitalizzate del pianeta – e di potenziali conflitti di interessi. Ad esempio, la RobecoSam mentre effettua lo screening, fornisce anche servizi di consulenza sulla sostenibilità ambientale a società quotate a New York o Londra, quindi “inseribili” negli stessi indici di sostenibilità.
Val la pena ricordare che in un passato nemmeno troppo lontano molti indici di sostenibilità globali annoveravano nelle loro compilazioni soggetti a dir poco controversi come Enron, Parmalat, BP e Tepco, a riprova che il sistema già in precedenza presentava delle falle consistenti.
ENEL
L’Enel è presente da nove anni consecutivi nel Dow Jones Sustainability Index. Nel corso del 2012, la compagnia energetica italiana è stata nuovamente inclusa nel FTSE4Good Index “grazie alla pubblicazione di informazioni sulla politica aziendale sul nucleare, sul sistema di gestione e sugli indicatori di prestazione”. Nel marzo 2011, l’Enel è stata l’unica multi-utility con attività legate alla produzione di energia nucleare a essere riammessa nell’indice FTSE4Good. Nel 2009 la RobecoSam ha compreso l’Enel nella “Silver Class” del suo rapporto annuale sulla sostenibilità, mentre dal 2010 al 2013 è stata inserita nella “Bronze Class”.
Il bilancio del 2011 della compagnia di viale Regina Margherita evidenzia un ulteriore miglioramento del punteggio della società nella categoria Salute e Sicurezza del Dow Jones Sustainability Index rispetto al 2010 (90 /100), ben al di sopra della media del settore delle utilities elettriche globali ( 65/100 ) e non lontano dal “migliore della classe” per la categoria specifica (98/100).
L’Enel e i cambiamenti climatici
L’Enel ha aumentato le sue emissioni di CO2 del 9,8% tra il 2010 e il 2012, mentre la produzione energetica netta da parte della società nello stesso periodo si è accresciuta di solo lo 0,6%. L’Eiris ha considerato questo elemento come un “miglioramento di minore entità”, poiché la società di consulenza pone in raffronto l’incremento delle emissioni con quello dei ricavi. Dal momento che i ricavi possono aumentare anche a causa di altri fattori rispetto alla produzione energetica, potremmo considerare come più opportuno confrontare le emissioni con l’energia prodotta, se parliamo di sostenibilità ambientale.
L’impatto sulle emissioni di carbonio in Italia collegato alle attività dell’Enel è notevole, tanto che l’impresa può essere ritenuta responsabile di contribuire in maniera significativa all’inquinamento e all’incremento delle malattie gravi a esso dovuto. Tuttavia Eiris valuta la politica ambientale dell’Enel e la sua gestione come “eccezionale” . Le questioni sulla sicurezza, la mancanza dello “stato dell’arte” della tecnologia disponibile, i potenziali rischi per la salute e le controversie pendenti in materia di centrali a carbone sono tutti fattori non considerati nel profilo dell’azienda. In generale, l’Eiris sembra essere più concentrata sulle politiche che Enel dichiara di seguire che sui fatti.
Allo stesso tempo, anche l’inserimento dell’Enel nella “Bronze Class” del Dow Jones Sustainability Index da parte della RobecoSam appare in contrasto con il già citato aumento delle emissioni di CO2.
Uno dei progetti più discussi in Italia è la centrale a carbone Torre Valdaliga Nord a Civitavecchia.
Il suo impatto sulla salute e sull’ambiente è preoccupante. L’area di Civitavecchia è prima nel Lazio e terza in Italia per numero di casi di cancro al polmone, e le morti per malattie dovute a neoplasie è superiore del 26% rispetto alla media nazionale.
La ricerca svolta dall’Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha chiaramente collegato l’aumento del rischio di cancro ai polmoni con l’esposizione cronica al particolato generato dalla combustione di combustibili fossili. Nel settembre 2004 , due articoli di ricerca scientifica pubblicati dall’Occupational Environmental Medicine e dal lavoro del British Medical Journal, hanno dimostrato che il livello di mortalità per tumore del polmone a Civitavecchia è più alto del 20% rispetto alla media nazionale.
Le centrali a carbone continuano a essere tra i maggiori responsabili per le emissioni di mercurio, arsenico e di particolato, con gravi effetti sulla salute umana, in particolare sul sistema nervoso dei bambini. Nell’area di Sant’Agostino, vicino all’impianto, la quantità di arsenico è 10 volte superiore ai limiti previsti dalla legge. Tanto che la Commissione Tecnico Scientifica, nominata dal consiglio comunale di Civitavecchia, ha raccomandato la conversione in campi non agricoli in quella zona entro un raggio di 30 chilometri.
L’Enel non sembra voler imparare dagli errori del passato. Negli ultimi anni si è concentrata sulla pianificazione della conversione al carbone dei suoi impianti che bruciano olio combustibile. In Italia tale strategia è stata proposta per le centrali di Rossano Calabro e Porto Tolle. In particolare, a Porto Tolle l’impianto a olio combustibile ha già causato enormi danni all’ambiente e alla salute pubblica, stimati dal governo in 3,6 miliardi di euro. Nello scorso mese di marzo, il Tribunale di Rovigo ha condannato Paolo Scaroni e Franco Tatò, ex amministratori delegati della corporation, a tre anni di reclusione in quanto responsabili degli impatti dell’impianto negli anni fra il 1998 e il 2005. In particolare, la Corte ha stabilito che in quel periodo l’impianto ha funzionato “senza che fossero eseguiti i necessari adeguamenti tecnologici, con la consapevolezza che le emissioni avevano superato i limiti imposti dalla legge e avevano causato inquinamento e malattie”.
Poche settimane, fa il ministero dell’Ambiente, tramite la Commissione VIA , ha nuovamente respinto la proposta di convertire l’impianto a carbone.
Nel suo rapporto l’Eiris non fa alcun riferimento ai controversi progetti idroelettrici di Palo Viejo in Guatemala, di El Quimbo in Colombia e HidroAysén in Patagonia cilena
L’impianto idroelettrico di Palo Viejo è costruito all’interno della Finca San Francisco, una grande tenuta di circa 14.000 ettari, che copre la maggior parte dei comuni di San Juan Cotzal e Uspantán, nelle regioni di El Quiche e Alta Verapaz. La Finca San Francisco occupa un’intera vallata, la cui terra negli ultimi 100 anni è stata costantemente sottratta alle comunità. La Finca è di proprietà della famiglia Brol, che durante la sanguinosa guerra civile in Guatemala ha partecipato alla repressione degli insorti nelle comunità maya Ixil, approfittando del susseguente caos per continuare ad accaparrare terreni in precedenza occupati dagli indigeni.
All’interno della Finca, dove l’attività principale è la coltivazione del caffè, viene ancora praticato il lavoro minorile e gli operai sono pagati solo 3 euro ogni cento chilogrammi di prodotto. Mentre la metà delle 169 comunità indigene della zona non ha accesso all’elettricità, l’Enel ha però messo cavi ad alta tensione che passano sulle loro teste per generare energia destinata all’export.
Le comunità indigene non sono state consultate, come invece indicato dalle leggi nazionali e dalle convenzioni internazionali. Anche per questa ragione, nel 2008 le stesse comunità hanno iniziato una ferma opposizione al progetto.
La diga di El Quimbo è uno dei più grandi progetti infrastrutturali in corso di esecuzione in Colombia. Nel 2009, il ministero dell’Ambiente ha concesso l’ autorizzazione ambientale per Emgesa (società sussidiaria di Endesa, a sua volta controllata dall’Enel) mediante la risoluzione 899 , che conteneva un elenco di compensazioni da pagare per eventuali danni causati all’ambiente e ai soggetti sfollati a causa del progetto. L’anno successivo, l’Endesa ha sostenuto che gli standard necessari per ottenere la licenza ambientale erano troppo rigidi, chiedendo una rinegoziazione degli accordi. Il 17 settembre 2010, il ministero dell’Ambiente ha concesso un’altra licenza ambientale che, rispetto al quella originale, prevedeva risarcimenti più bassi per le comunità locali. In violazione delle disposizioni vigenti, le comunità locali non sono state consultate durante tutto il processo di rinegoziazione. Di conseguenza hanno presentato una denuncia al tribunale amministrativo regionale, che il 28 dicembre 2010 ha stabilito che la licenza ambientale doveva essere revocata. Sentenza che però non è stata di fatto applicata dal ministero dell’Ambiente.
Tra i principali impatti causati dalla diga vanno segnalati: l’allagamento di oltre 2.000 ettari di colture; lo spostamento di 1.700 residenti, con relativa perdita di posti di lavoro; gli impatti sulla produzione agricola, per un valore di 600 milioni di euro; la perdita della sovranità alimentare e dei diritti fondamentali all’interno della zona della diga e la sua area di influenza.
Un progetto ampiamente analizzato da Eiris è quello promosso dal consorzio HidroAysén, in cui l’Enel è azionista di maggioranza tramite Endesa. La risposta di Enel alle critiche ricevute dalle parti in causa è considerata come “limitata”. Le critiche espresse da diverse organizzazioni durante varie assemblee degli azionisti della società sono state valutate come un segnale positivo di impegno da parte dell’Enel nel voler intraprendere un dialogo con i soggetti interessati dal progetto, sebbene – come riportato più volte da parte dalle stesse organizzazioni – la risposta di Enel sia sempre stata considerata “inadeguata”. La Patagonia cilena è uno degli ultimi angoli incontaminati del nostro pianeta. Il progetto dell’HidroAysén consiste nella realizzazione di cinque grandi dighe sui fiumi Baker e Pascua – due dei più estesi corsi d’acqua del Paese. Gli impianti dovrebbero produrre 2.750 megawatt di energia elettrica, il 20% dell’intero fabbisogno energetico nazionale. A beneficiare di tale energia sarebbe l’industria mineraria, presente nel nord del Paese, attraverso una linea di trasmissione lunga oltre 2.000 chilometri e composta da 6.000 torri alte 70 metri. Le ricadute negative sarebbero tutte sugli abitanti della zona interessata dalle dighe e i 67 comuni delle 9 regioni cilene per cui passerà la linea di trasmissione. I mega sbarramenti dovrebbero inondare quasi 15.000 ettari di ecosistemi forestali tra i più rari a livello globale e alcune delle terre agricole più produttive della zona.
Dal 2007, una forte opposizione pubblica ha continuato a ritardare il progetto e mettere in discussione la sostenibilità del processo di revisione ambientale. Una grande coalizione di movimenti sociali ha creato il Consiglio per la Difesa della Patagonia e lanciato la campagna internazionale “Patagonia Sin Represas”. Secondo recenti sondaggi, il 60 % dei cileni è contro il mega-progetto, i cui costi si aggirano sui 10 miliardi di dollari.
Si ritiene che gli impatti sociali e ambientali sarebbero devastanti, tanto che la nuova amministrazione diretta dalla presidentessa Michelle Bachelet ha bollato come del tutto insoddisfacente la valutazione di impatto ambientale approvata nel 2011 e ha deciso di invalidare le decisioni prese dalla precedente amministrazione. La Bachelet ha dichiarato che il governo da lei diretto deciderà sul futuro di HidroAysèn entro e non oltre il 30 maggio 2014 .
ENI
L’Eni è una delle più grandi compagnie petrolifere mondiali, attiva in 90 paesi, con organico complessivo di 78.000 dipendenti. Le organizzazioni della società civile denunciano da anni violazioni dei diritti umani ed estesi danni ambientali connessi agli investimenti Eni in paesi come la Nigeria, la Repubblica del Congo e il Kazakistan. Nel frattempo ci sono diverse inchieste internazionali per presunta corruzione legata alle attività della corporation italiana in Algeria, Kazakistan, Iraq e Nigeria.
L’Eni è stata inclusa nel Dow Jones Sustainability Index e nel FTSE4Good nel 2007. Nel suo Rapporto di Sostenibilità, la compagnia si è così espressa: “il 2007 è stato un anno cruciale per Eni” dal momento che è entrata a far parte dei più prestigiosi indici borsistici del mondo nel campo della responsabilità sociale d’impresa. Nel 2012 , nella sua Relazione annuale ha affermato che la società è stata “messa per il sesto anno consecutivo nel Dow Jones Sustainability Index e nell’indice FTSE4Good”. La relazione annuale (che integra il bilancio di sostenibilità) non riporta ulteriori dettagli sulle performance ambientali, sociali e di governance dell’Eni.
Nel 2013, la società ha dichiarato di aver raggiunto il più alto punteggio della sua storia per le prestazioni ambientali nell’indice Dow Jones. La RobecoSAM ha infatti posto la compagnia nella sua “Silver Class”. Tuttavia la società di consulenza non fornisce maggiori informazioni sui dati reali su cui si basa il profilo, elemento che solleva interrogativi di rilievo in termini di trasparenza, qualità e obiettività dei dati utilizzati. Soprattutto perché il Dow Jones Sustainability Index è utilizzato dall’Eni come un importante indicatore della reputazione della società. Ancora più importante, la presenza dell’Eni negli indici DJSI e FTSE4Good è uno dei criteri per l’assegnazione degli incentivi annuali all’amministratore delegato e al presidente (pesa per il 10% del totale degli incentivi annuali). Grazie alla presenza dell’Eni in entrambi gli indici, nel 2013 l’AD Paolo Scaroni ha guadagnato un bonus di 157.300 euro.
Indici Sustainablility e violazioni dei diritti ambientali e umani
Nelle assemblee degli azionisti dell’Eni dal 2010 al 2013, la Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Fcre) e Re:Common hanno sollevato la questione delle pratica del gas flaring portata avanti dalla compagnia. Il 12 settembre 2013, in un suo comunicato stampa l’azienda del cane a sei zampe ha dichiarato che “nel settore Oil & Gas, in cui sono state selezionate 15 aziende tra le 123 candidate, l’Eni ha conseguito il punteggio più alto per la prestazione ambientale nel DJSI “.
Nel settembre 2010, l’Eni ha affermato di aver ottenuto il punteggio più alto nel settore Oil & Gas in relazione alla trasparenza delle sue attività, al coinvolgimento degli stakeholder, alla completezza dei rapporti e alla gestione ambientale. L’Eni è indicata dalla RobecoSAM come leader della sua “Silver Class” nel Sustainability Yearbook 2013. Era “Bronze Class” nel 2012 , “Gold Class” nel 2011 , “Silver Class” nel 2010 e “Gold Class” nel 2009.
In Nigeria l’Eni è attiva dal 1960 nella prospezione ed estrazione di petrolio e gas, in un territorio dove le comunità sono tra le più povere del Paese e dipendono in maniera assoluta dalla terra e dai fiumi per la pesca su piccola scala e per le attività agricole. Al di là dei luoghi reali di esplorazione, la società è responsabile per impianti di lavorazione altamente inquinanti e delle pipeline che si estendono per decine di chilometri dai siti di estrazione verso impianti di trasformazione e terminali per l’esportazione, come quello di Bonny Island. Nel 2011, una missione della società civile internazionale nel Delta del Niger ha potuto appurare come nel sito di Ebocha, dove l’azienda aveva in precedenza dichiarato di aver raggiunto l’obiettivo “zero flaring”, fosse in realtà ancora in corso la pratica del gas flaring; lo stesso discorso vale per Kwale-Okpai, dove è stato costruito il primo progetto CDM per la riduzione del gas flaring e invece sono almeno sei le torri con il pennacchio di fuoco tipiche di questa attività. Nel corso degli ultimi anni, le comunità locali hanno denunciato centinaia di fuoriuscite di petrolio. Le prove di alcuni incidenti sono state incluse nel rapporto e nel video-documentario prodotti dalle organizzazioni della società civile a seguito della missione. La mancanza di una pronta reazione quando si sono verificate le fuoriuscite di petrolio, nonché l’assenza di bonifiche, sta creando crescenti tensioni nel territorio del Delta. Per i sistemi della Eiris/FTSE4Good le politiche pesano più delle accuse concrete. Per loro la Politica Ambientale dell’Eni è considerata “buona” , il reporting ambientale è ” eccezionale” e le prestazioni ambientali hanno denitato un “miglioramento significativo” .
Nonostante le sue scarse performance in termini di inquinamento (documentate anche dalla Eiris), nel 2013 per le sue prestazioni ambientali l’Eni si è aggiudicata il punteggio più alto del settore Oil & Gas da parte del DJSI/RobecoSAM.
Gli indici di sostenibilità e i casi di corruzione internazionale
L’8 settembre 2011, l’Eni ha dichiarato di aver ottenuto il punteggio più alto nel settore Oil & Gas per la trasparenza delle sue attività, per le attività di raffinazione, per il reporting ambientale e per la gestione. Negli ultimi anni l’Eni è stata coinvolta in diversi casi di presunta corruzione internazionale in Nigeria, Algeria, Kazakistan e Iraq. Tuttavia l’Eiris/FTSE4Good fa riferimento solo lo scandalo di corruzione di Bonny Island, in Nigeria, dove l’Eni e la Saipem sono state condannate sia dalle autorità statunitensi che italiane. Nel suo profilo aziendale, l’Eiris afferma che l’Eni ha un “alto potenziale di esposizione al rischio corruzione”, che nel complesso “ha un approccio intermedio alla lotta contro la corruzione” e che mentre “le sue politiche sono avanzate, così come i suoi sistemi, il numero di rapporti prodotti in questo campo specifico è molto limitato”.
Nonostante il suo presunto coinvolgimento in importanti casi di corruzione, l’Eni è stata fatta rientrare nella “Gold” e “Silver” class per la sostenibilità dalla DJSI/RobecoSAM.
L’Eni è coinvolta in un’indagine internazionale per corruzione in Algeria, dove a partire dal 2011 la sua controllata Saipem avrebbe pagato tangenti per 197 milioni di euro ad alti funzionari governativi al fine di assicurarsi diversi contratti, tra cui quello del valore di 10 miliardi di euro per il gasdotto GALSI. L’inchiesta coinvolge in prima persona anche l’amministratore delegato uscente Paolo Scaroni, la cui casa e l’ufficio sono stati perquisiti dalle autorità italiane nel 2013. L’Eiris riferisce circa il presunto caso di corruzione Algeria, evidenziando come la risposta della società sia stata “limitata” . Tuttavia non è chiaro come questo elemento sia stato conteggiato nella classificazione generale.
Dettagli sui presunti casi di corruzione in Iraq, Kazakistan o relativi all’OPL 245 in Nigeria non sono riportati nel profilo prodotto dall’Eiris.
Nel giugno 2011, la Procura della Repubblica di Milano ha riferito che stava indagando su un caso di presunta “corruzione internazionale” relativo all’acquisizione del giacimento di Zubair (Iraq). Dirigenti di Saipem ed Eni sono così finiti sotto inchiesta per “associazione a delinquere”. Nel marzo 2012, la Procura ha annunciato l’inclusione nell’inchiesta di un certo numero di grandi imprese italiane (Saipem, Tecnimont, Ansaldo Energia, Elettra Progetti, Siirtec, Renco e Prysmian), che potrebbero aver favorito l’Eni attraverso false fatturazioni per i servizi forniti, facendo sì che la differenza tra il prezzo reale del servizio e quello che era stato effettivamente pagato fosse utilizzato per pagare tangenti a “funzionari pubblici all’estero”. L’Eni ha dichiarato di essere stata vittima di “manager infedeli”, che sono stati poi citati in giudizio dalla società. Per lo stesso caso la compagnia è sotto indagine per presunte violazioni della normativa 231/2001 (responsabilità amministrativa delle persone giuridiche). Il procedimento è tuttora pendente.
Nel novembre 2007, la Procura della Repubblica del Kazakhstan ha comunicato all’Agip KCO (sussidiaria locale dell’Eni) di aver avviato un’inchiesta per una presunta frode nell’aggiudicazione di un appalto con il consorzio Overseas International Constructors GmbH nel 2005 . Il 1 ottobre 2009, la Procura della Repubblica di Milano ha richiesto una serie di documenti ai sensi dell’articolo 248 del codice penale. Documenti che l’Eni è stata tenuta a trasmettere nell’ambito di un procedimento penale contro ignoti in relazione alla presunta corruzione internazionale, all’appropriazione indebita e ad altri reati in Kazakistan. La documentazione era relativa ad anomalie e criticità sulla gestione dell’impianto di Karachaganak e del progetto Kashagan. Come affermato dalla stessa Eni nel 2013, dopo l’indagine da parte delle autorità italiane sul caso del Kazakistan, il 24 aprile 2012 il pubblico ministero di Milano ha chiesto di sospendere l’Eni per un anno e sei mesi dall’esercizio delle attività programmate dal contratto di condivisione della produzione in Kazakistan, ponendo l’azienda in amministrazione straordinaria. La decisione è ancora pendente.
Il 24 luglio 2013, la Reuters ha riferito che la polizia britannica starebbe indagando su una accusa di riciclaggio di denaro legato all’acquisto in Nigeria per 1,3 miliardi dollari della concessione per un grande giacimento di petrolio da parte della Shell e dell’Eni, dopo che la maggior parte del denaro pagato sarebbe finito in una società collegata all’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete, condannato per riciclaggio di denaro in Francia. L’accusa riguarda il blocco offshore OPL 245 . L’accusa di riciclaggio di denaro relativo all’OPL 245 era stata oggetto di una domanda da parte della Ong britannica Global Witness durante l’ultima assemblea degli azionisti dell’Eni tenutasi lo scorso maggio. Il 16 marzo 2014, il quotidiano italiano “Il Fatto Quotidiano” ha riferito che le autorità italiane hanno avviato un’indagine sul caso. Nel settembre 2011, appena un anno dopo il patteggiamento con le autorità statunitensi per lo scandalo di Bonny Island, l’Eni aveva ottenuto il punteggio più alto nel settore Oil & Gas in merito alla trasparenza delle sue attività.
In generale, sembra che per quanto riguarda corruzione e concussione, Eiris sia più focalizzata sulle politiche dichiarate dall’azienda, sui sistemi e sui rapporti che non sulla gravità dei casi.