[di Giulia Franchi e Luca Manes]
pubblicato su Nigrizia – febbraio 2016
“La lettera di nullaosta alla vostra missione non ci è mai arrivata, o comunque adesso non è qui. Tornate domani”.
“La lettera è a posto ma adesso ci sono problemi di sicurezza. Dobbiamo verificare la fattibilità della visita con le notizie che ci arrivano dalla regione. Tornate domani”.
“A livello di governo federale non ci sono controindicazioni. Il problema sono le discussioni con il Governo Regionale. Tornate domani”.
E noi l’indomani siamo tornati, così come il giorno dopo, e pure quello dopo ancora.
Il teatro di questo plot tragicomico è il ministero della Comunicazione di Addis Abeba, in Etiopia.
Già la pratica per il rilascio del visto giornalisti non era stata facile, nonostante avessimo una richiesta inoltrata dal giornale e sostenuta da un invito dell’Unità Tecnica della Cooperazione Italiana in Etiopia corredata da informazioni dettagliate su tutti i dettagli riguardanti la nostra permanenza nel paese. Quando ci eravamo ormai arresi e le date del nostro viaggio erano già “saltate”, ci è arrivata la “lieta novella”. Allora abbiamo riorganizzato tutto, pensando ingenuamente che con il visto sul passaporto sarebbe andato tutto liscio. Errore.
Eravamo in Etiopia per scrivere un reportage sul ruolo della Cooperazione Italiana nel paese, il secondo più popoloso d’Africa con tassi di crescita fra i più alti al mondo, combinati con questioni interne che chiamarli problemi è un eufemismo, tra fame, violenza, povertà ancora diffusa, e un sistema politico basato su un monopartitismo di fatto.
L’Etiopia, anche nota per essere tra i paesi più dipendenti dagli aiuti stranieri, che negli ultimi anni sono arrivati a coprire tra il 50 ed il 60 per cento del bilancio nazionale, dal 2010 ha messo in piedi un impetuoso Piano di Crescita e Trasformazione, modellato su grandi infrastrutture e sviluppo agroindustriale intensivo, con l’obiettivo di entrare in breve, e a pieno titolo, tra i paesi a medio reddito.
Per raccontare come si posiziona la nostra Cooperazione allo Sviluppo in un contesto tanto controverso e pieno di contraddizioni, avevamo scelto di partire dalla visita ad alcuni progetti per la riduzione del rischio nel settore acqua localizzati nella bassa Valle dell’Omo, a Sud del Paese. La Valle è un’immensa distesa di quasi 25mila chilometri quadrati, che ospita un melting pot culturale fatto di almeno 16 distinti gruppi etnici, con più di 700mila persone che mantengono uno stile di vita pastorale, e la cui vita dipende interamente dall’immenso fiume Omo e dall’utilizzo delle terre circostanti.
Solo che nell’Omo i giornalisti non ci possono andare. O meglio, chi cerca di farlo seguendo i canali ufficiali e le confuse procedure del governo non ha vita facile. Così, la nostra settimana in Etiopia ha presto preso le sembianze di una corsa a ostacoli. Nonostante gli sforzi logistici e, ci dicono, di alta diplomazia, della Cooperazione Italiana e dell’Ambasciata, a metà del viaggio ci siamo dovuti arrendere di fronte all’evidenza.
Dopo giorni di attesa in capitale avevamo ricevuto un primo sudato ok in carta bollata per volare ad Arba Minch, nella Regione delle Nazioni, Nazionalità e Popoli del Sud (S.N.N.P.R.), a circa 500 chilometri a sud di Addis Abeba.
Una volta lì, dopo una sequela di informazioni contraddittorie, riceviamo il via libera per percorrere qualche altro chilometro, fino a Konso, la cittadina sul fiume Sagan. Una volta a Konso, ci avevano assicurato prima di partire, avremmo ricevuto il permesso per percorrere l’ultimo tratto, che doveva portarci ad Omorate, nella Valle dell’Omo.
Ma a Konso ci siamo dovuti fermare, e rassegnare di fronte all’evidenza. “Oggi no, forse domani” era la risposta ricorrente che arrivava da Addis. Eravamo lì, all’ingresso della Valle, ma la macchina della cooperazione sulla quale viaggiavamo non si sarebbe assunta la responsabilità di procedere senza il nulla osta del Governo Etiope, per ottenere il quale, ci raccontano, era stato scomodato anche il ministro. Evidentemente senza successo.
La “colpa” era nostra, avevamo scelto di andare proprio dove non si doveva andare. Una “zona calda”, una “zona di conflitto”, “la popolazione della zona è un po’ agitata”, “ci sono rischi di sicurezza” continuavano a ripeterci i nostri referenti ad Addis, aggiungendo anche “ma se riuscite ad arrivare, mi raccomando, evitate certe domande scomode. Di dighe e investimenti agricoli laggiù, è meglio non parlare”.
La nostra scelta, in effetti, non era stata casuale. L’Omo ci interessava, e non solo perché da alcuni anni numerose organizzazioni per la difesa dei diritti umani continuano a più riprese a denunciare storie di abusi e violenze inaudite perpetrate dal governo nei confronti delle popolazioni pastorali della zona, per costringerle alla sedentarizzazione forzata per far spazio alle grandi piantagioni di canna da zucchero, olio da palma e cotone.
E neppure solo perché il sistema degli aiuti allo sviluppo in Etiopia è accusato di contribuire al rafforzamento di pratiche antidemocratiche e repressive messe in campo dal Governo Etiope attraverso un sostegno acritico al Piano di Crescita e Trasformazione del Governo che promuove un modello di sviluppo aggressivo che colpisce violentemente, tra le altre, anche le comunità rurali e pastorali dell’Omo.
Neanche solo perché l’Italia, che all’Etiopia nel triennio 2013-2015 ha dato quasi cento milioni di euro in aiuti allo sviluppo, partecipa attivamente e dal suo inizio nel 2006 al criticatissimo programma di Promozione dei Servizi di Base. Ovvero una sorta di fondo multilaterale guidato dalla Banca Mondiale, assurto alle cronache internazionali perché accusato di contribuire ai programmi di sedentarizzazione forzata del Governo nelle regioni di Gambella e, appunto, dell’Omo.
La Valle dell’Omo ci interessava perché negli anni ha attirato molto le attenzioni del “Sistema Italia”, quell’insieme di soggetti pubblici e privati che la Cooperazione Italiana ritiene, certamente in buona fede, di poter attrarre in maniera virtuosa. Che l’Omo sia per l’Italia un punto di convergenza del Sistema Italia sono tante cose a testimoniarlo. Per esempio il fatto che nel 2004 la Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo approvò il più grande credito d’aiuto mai erogato nella storia del fondo rotativo, 220 milioni di euro, per la costruzione della contestatissima diga Gilgel Gibe 2 proprio sul fiume Omo.
A costruire lo sbarramento fu l’italianissima Salini-Impregilo, così come accadde per Gigel Gibe 1 e come sta avvenendo ora per Gigel Gibe 3, l’ultima (per il momento), della saga.
Ancora, quel pezzo di Etiopia ci interessava perché quando c’era da portare alto il tricolore in occasione della terza Conferenza delle Nazioni Unite sul Finanziamento allo Sviluppo è proprio nell’Omo che è volato Renzi per testimoniare il suo orgoglio.
Nell’Omo ci saremmo voluti andare anche noi, per verificare sul campo se gli effetti idealmente positivi di un piccolo progetto virtuoso di gestione comunitaria dell’acqua possono reggerlo il peso (anche morale) degli impatti cumulativi dovuti alla presenza ingombrante di una comunità di donatori percepita dagli abitanti della zona come finanziatrice di un governo repressivo e di investitori stranieri considerati ladri di terre.
Ma nell’Omo, noi, non ci siamo potuti andare.